Energia, alchimia, manifestazione della processualità, attenzione alle forme in potenza insite nei materiali, sono gli elementi che caratterizzano il lavoro di Gilberto Zorio (Andorno Micca, Biella, 1944) sin dalla metà degli anni sessanta, facendone una delle figure principali dell’Arte Povera.
Attratto dai processi chimico-fisici, Zorio conduce una ricerca che si fonda sul rendere visibili le fasi di trasformazione della materia, dando vita a opere che sono in costante azione e mutamento, come dotate di una propria forma e forza vitale. Elementi chimici quali lo zolfo, il cobalto, il fosforo sono messi in relazione con strutture di eternit o ferro, che rappresentano la stabilità contro l’instabilità dei processi attivati dall’artista, ma anche il dialogo, a volte conflittuale, tra materie naturali e prodotti della modernità industriale. Ne sono esempio le Pelli con resistenza (1968), pelli di animali a contatto con resistenze elettriche che rendono palpabile lo stato di tensione cui l’opera è sottoposta, o i lavori realizzati con la cera, materiale estremamente sensibile al caldo e al freddo e pertanto in grado di assumere le forme più diverse all’interno dello spazio espositivo.
L’accostamento di sostanze di origine differente porta a dispiegarsi un’energia primaria che esalta le proprietà intrinseche dei materiali e al tempo stesso si fa specchio delle azioni e reazioni che governano il cosmo, lasciando incontrare arcaico e tecnologico. L’artista diviene quindi attivatore di un processo i cui effetti possono essere controllati solo in parte mentre è il tempo a modellare l’opera, a darle una forma sempre diversa, a renderla soggetta agli agenti chimici, fisici e atmosferici.
“È un’attesa continua – racconta Zorio – Io metto in moto la macchina. Poi la macchina segue il suo percorso. Può accadere di tutto. Un grande chimico torinese mi disse un giorno che talvolta possono verificarsi reazioni speciali, con probabilità di una volta su un milione: perciò si resta sempre in attesa, in uno stato di continua sovraeccitazione”.
L’indagine sui materiali si lega alla componente simbolica, incarnata da alcuni elementi costanti del suo lavoro quali la stella a cinque punte, la canoa, il giavellotto, forme che assumono il valore di archetipi e al tempo stesso divengono immagini energetiche, rimandando a un’idea di tensione e vitalità.
Il fuoco è passato, del 1968, incarna molti degli aspetti che caratterizzano la poetica di Zorio: l’importanza al processo, l’instabilità, la tensione tra materiali diversi, l’utilizzo del fuoco come elemento primario. Esposta in occasione della mostra Arte povera più azioni povere del 1968, l’opera condivide con l’esperienza amalfitana nel suo complesso l’attenzione alla componente processuale e performativa, in grado di creare un campo di energia in cui lo stesso spettatore rimane inevitabilmente coinvolto.
“Aspiro a un’arte che non sia fissata in una forma, che si apra all’imprevisto, che agisca”, afferma l’artista.
Una lastra di eternit (attualmente sostituita da una lastra priva di amianto) , nella quale si ricongiungono i due estremi di una rete disposta in modo circolare, porta le tracce di un processo di combustione: l’artista ha girato tutt’intorno alla recinzione, al buio completo, utilizzando la fiamma ossidrica come unica fonte luminosa e lasciando la scia del suo passaggio. La forma minimale del supporto funziona di contrasto con i segni lasciati dal fuoco, espressione di un’energia viva non ancora consunta. La casualità dei segni ottenuti risponde all’esigenza di lasciar parlare la materia: è questa a disegnare la forma e l’immagine finale, risultato di un processo di trasformazione che racconta le metamorfosi cui l’opera è stata sottoposta.
AT