Dopo il diploma in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, a partire dalla metà degli anni Ottanta la ricerca di Umberto Manzo (Napoli, 1960) si caratterizza per l’utilizzo articolato di tecniche e materiali eterogenei, quali l’emulsione fotografica, il disegno a grafite, la pittura a olio, la sperimentazione con colori e colle vegetali, fino ad elaborare sintesi provvisorie che definiscono un palinsesto visivo intimamente radicato nell’operatività quotidiana e nei processi memoriali dell’artista.
Progressivamente, le prime esperienze pittoriche di ascendenza informale sembrano placarsi nella seconda metà degli anni Ottanta attraverso l’adozione di colori più tenuti e un tratteggio semplificato delle figure. Nel 1987 inizia la sua collaborazione con lo Studio Trisorio di Napoli, che gli dedicherà numerose mostre personali, mentre a partire dalla mostra al Centro Prossemico di Cultura nel 1988 l’artista inizia a porre l’opera all’interno di grandi cornici di ferro e a ridurre la rappresentazione a sagoma, spesso riferita a icone di matrice classica. L’opera bidimensionale evoca una tridimensione oggettuale, che si definisce ulteriormente con la realizzazione, a partire dal 1990, dei primi polittici e, dal 1992, dall’inserimento di fogli di carta sui cui l’artista presenta dettagli autobiografici e elementi autoreferenziali che caratterizzano l’opera come un vero e proprio “archivio della memoria”. Nel 2000, nella stazione Quattro Giornate della Linea 1 della Metropolitana di Napoli, è installato il trittico di grandi dimensioni Senza titolo: tre teche, fissate al muro con travi in ferro, che racchiudono disegni, fogli di giornale, fotografie, in cui, come afferma l’artista, “le teche custodiscono stratificazioni di memorie”, assecondando “una lettura verticale, in rapporto al viaggio nel sottosuolo, e una lettura orizzontale, le travi, il binario, il percorso del viaggio”. Nel 2003 Castel dell’Ovo dedica all’artista un’ampia mostra personale, a cui seguono opere in cui anche le tele colorate vengono sovrapposte o ricomposte come le carte, che a loro volta fuoriescono dalla tela bianca o sono ritagliate a formare/ospitare cerchi e specchi circolari.
Stratificando i propri disegni e collocandoli nello spessore del telaio, strutturando la profondità dell’opera attraverso ritagli multiformi che profilano la tela, conferendo alla teca un valore documentale, Manzo fa emergere dalla matericità degli elementi una molteplicità di narrazioni anche solo suggerite nell’apparizione e disposizione frammentaria, in cui la figurazione è sempre più un processo mentale e l’opera una riorganizzazione modulare, per quanto sfuggente e mobile: “le teche, le cornici e la disposizione dei disegni nello spazio ad essi assegnato testimoniano l’inclinazione alla ricostruzione di un ordine – cosmico, architettonico o morale – che è necessario […] all’espressione di proprie funzionali leggi di collocazione, d’organizzazione dinamica” (Gigiotto del Vecchio).
L’opera Senza titolo, 2013, donata al Madre e presentata nell’ambito del progetto Per_formare una collezione. Per un archivio dell’arte in Campania, è un esempio di questa prassi: carte strappate, tagliate, recanti tratti di matita, tracce di esperienza custodite in teche di ferro che ne accolgono la storia individuale celebrando al contempo l’enigma e il fascino della Storia. Un’opera che, racchiudendo le sue stesse stratificazioni, rende anche un chiaro riferimento a una città come Napoli, richiamo autobiografico alle proprie origini, invito allo sguardo a procedere oltre la superficie, nella ricerca di molteplici significati, di un ordine possibile nella frantumazione dello spazio e del tempo.
[Silvia Salvati/Olga Scotto di Vettimo]