Nino Longobardi

Nino Longobardi, “Terrae Motus”, 1981. Acquisito nel 2013 con finanziamento della Regione Campania. Collezione Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Nino Longobardi, “Terrae Motus,” 1981. Acquired in 2013 with a grant from the Campania Regional Government. Collection Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Photo © Amedeo Benestante.

Libero da qualsiasi condizionamento accademico, Nino Longobardi (Napoli, 1953) ha nutrito la sua formazione da autodidatta soprattutto attraverso la frequentazione di artisti, critici e galleristi, tra cui Carlo Alfano e Joseph Beuys. In particolare l’incontro, nel 1968, con Lucio Amelio apre un sodalizio umano e professionale che continuerà fino alla scomparsa del gallerista nel 1994. Dopo avere esposto nel 1978 presso lo studio di Gianni Pisani, l’artista, sviluppa una ricerca pittorica e figurativa, in cui la figura umana diventa la forma prevalente, costruita con un segno fortemente espressivo dato a matita e a carboncino.

Il terremoto che sconvolge la Campania il 23 novembre del 1980 catalizza una nuova tensione e amplifica la potenza del linguaggio, facendo dell’espressione gestuale e compositiva un’esperienza catartica che assume e contrasta il senso tragico della vita. Colto dal sisma mentre prepara i lavori per la seconda personale nella galleria di Amelio, l’artista cambia di segno di fronte alla potenza distruttrice della natura, realizzando opere come Terrae Motus (1980), ora in collezione al Madre, che insistono su questa esperienza catartica dell’arte, disegnando figure umane che sovrastano, calpestandoli, il gigantismo dei teschi sottostanti. Nell’opera Senza titolo, oggi conservata nella collezione Terrae Motus alla Reggia di Caserta, Longobardi esprime il senso della catastrofe attraverso un nuotatore, unico sopravvissuto alla morte.

Negli anni Novanta la materia subisce un processo di ulteriore scarnificazione, diventando più essenziale e asciutta, e svuotando di conseguenza la figura, che ora diventa ombra, impronta. I temi e l’iconografia di queste opere sono tratti della stratificazione culturale di Napoli: teschi disegnati, dipinti o volumetrici, talvolta anche ossa organiche, e rimandi alla contraddizione insita nel rapporto vita/morte, su un crinale sempre incerto, in bilico tra l’abisso e la rinascita, la bellezza e la violenza, la catastrofe e la cultura. Il bronzo, l’argilla, il gesso, la matita e la pittura, i bianchi o, comunque, i toni bassi della scala cromatica, sono i codici, le materie e le tecniche con cui la ricerca di Longobardi procede in una chiave mai autobiografica, ma protesa, invece, a toccare note universali.

La cultura partenopea, avvertita come parte della Storia, permea il consueto vocabolario dell’artista, che si struttura anche attraverso riferimenti più o meno espliciti alle icone della cultura locale, dalle reliquie di San Gennaro ai calchi di Pompei. Nel 1999 l’artista espone in una personale a Castel Nuovo, nel 2001 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e nel 2013 al Museo Nazionale di Capodimonte, in un contesto che, storicamente, gli deve l’intuizione di un termine, “Terrae Motus”, profondamente legato alla storia della cultura contemporanea a Napoli e in Campania.

[Olga Scotto di Vettimo]

Terrae Motus, 1981

Attualmente non esposta.

Nino Longobardi, "Terrae Motus", 1981. Acquisito nel 2013 con finanziamento della Regione Campania. Collezione Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Nino Longobardi, "Terrae Motus," 1981. Acquired in 2013 with a grant from the Campania Regional Government. Collection Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Photo © Amedeo Benestante.