Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte, Matteo Fraterno (Torre Annunziata, 1954) si trasferisce a Milano, dove frequenta l’Accademia di Brera, per poi fare rientro a Napoli. Dalla fine degli anni Settanta è a Parigi per quattro anni (1979-1983); torna a Napoli alla metà del decennio e qui partecipa alla mostra collettiva Evacuare Napoli (Istituto Francese, 1985). Sono gli anni in cui la ricerca di Fraterno, eleggendo quale suo atelier una casa-studio alle falde del Vesuvio, si orienta verso una pittura materica, definita dell’artista stesso “eruttata” per la mescolanza del colore a olio e pigmenti vari con materiali piroclastici, sabbia vulcanica, lapilli e disfacimenti tufacei. “Guardandomi intorno traducevo in forme plastiche un’opera che metteva finalmente in vita materiali naturali: sabbia, tufo, pietra lavica; materiali che il contesto ambientale, con la sua carica autodistruttiva innescata dall’uomo, aveva reso morti”, racconta l’artista. Dagli anni Novanta si registra nell’attività di Fraterno una svolta “relazionale”, che lo porta a collaborare con gruppi quali Oreste, organismo collettivo, auto-organizzato e autogestito dai suoi partecipanti, con cui concepisce il progetto Bacinonapoli (1998), e con Osservatorio Nomade Stalker, realizzando progetti tra Roma, il Salento e Napoli. Più recentemente Fraterno ha avviato una ricerca sui transiti nel Mediterraneo tra Italia, Grecia, Albania e Turchia, abbracciando l’idea di nomadismo, spostandosi di continuo tra questi Paesi e attivando una serie di scambi tra queste diverse realtà culturali e sociali.
Certosa, l’opera realizzata nel 1995 e entrata a far parte della collezione al Madre nell’ambito del progetto Per_formare una collezione. Per un archivio dell’arte in Campania, rappresenta uno spartiacque nella produzione di Fraterno: da una dimensione più materica, che vede al centro i materiali provenienti dalla propria terra (pietra lavica, sabbia, acqua marina), a un approccio più minimalista e concettuale, che presto evolverà nei progetti di natura relazionale. Realizzata durante la permanenza dell’artista nella Vigna di San Martino, a ridosso dell’omonima Certosa, ed esposta in occasione della mostra personale allo Studio Morra di Napoli nello stesso anno, Certosa è il risultato del rapporto tra l’artista e un brano di natura incontaminata nel cuore della città, che stimola riflessioni su altre terre al contrario ferite, quali quelle vesuviane e il paesaggio dell’Amazzonia, segnato da sfruttamento, eccidi e distruzioni. Elementi molto semplici ma dall’alto valore simbolico rendono quest’opera una sorta di memoriale, un “mortus conclusus” come lo definisce Achille Bonito Oliva, che, nel minimalismo delle sue forme, invita alla meditazione per farsi discorso universale. “Con i semplici gesti dei monaci certosini, l’artista napoletano introduce l’ecologia di un’opera che non annulla il rumore della vita ma lo riequilibra con la proposta iconografica di un silenzio contemplativo” (Bonito Oliva).
[Alessandra Troncone]