Figura di assoluto rilievo dell’arte americana del secondo dopoguerra, James Lee Byars (Detroit, 1932 – Cairo, 1997) ha fatto del nomadismo tra mezzi e paesi diversi il punto di partenza della sua ricerca estetica. Dopo gli studi in arte e filosofia, si trasferisce a Kyoto nel 1958, dove viene in contatto con i rituali dello Shintoismo e il Teatro Nō giapponese. Spiritualità, lentezza, valore conferito ai gesti più semplici sono elementi che influenzeranno il lavoro di Byars, contaminandosi con lo studio delle filosofie occidentali.
Ossessionato dall’idea di perfezione, l’artista dà vita ad un corpus di lavori caratterizzati dall’attenzione per tutto ciò che è effimero, e per questo prezioso: performance, sculture, costumi di tessuto, libri, disegni a inchiostro sono solo alcuni degli esempi della sua produzione, nella quale la ricerca della bellezza si combina con la volontà di aspirare alla verità assoluta.
Nelle sue performance pubbliche, realizzate a partire dagli anni Sessanta, l’azione individuale si trasforma in evento collettivo, in grado di mettere il singolo in pervasiva relazione con la comunità, come in Four in a Dress (1967), Dress for Two (1969) o Ten in a Hat (1969), attraverso la creazione di abiti “comuni” da indossare e condividere per la durata della performance. Byars stesso ha definito la sua pratica “la prima filosofia totalmente interrogativa”, sottolineandone la sospensione dubitativa e la doppia matrice, estetica e filosofica.
Tra i materiali privilegiati di Byars vi è la carta velina, caratterizzata da leggerezza e trasparenza e utilizzata sia in forma di materiale per le sue sculture e performance, sia come supporto per disegni, lettere e scritti teorici, come nel caso dell’opera in collezione.
Nel 1975, in occasione dei festeggiamenti per i primi dieci anni di attività della Modern Art Agency di Lucio Amelio, Byars realizza un intervento per gli interni di Villa Volpicelli a Posillipo, dove si svolge la festa a chiusura delle varie mostre celebrative, tutte di breve durata, ospitate in quell’occasione presso la galleria di Piazza de’ Martiri: le stanze dell’abitazione del collezionista Peppino Di Bennardo sono invase da sculture realizzate in carta velina, che entrano in diretta relazione con l’arredamento e il pubblico.
Sempre utilizzando la carta velina come supporto, anche la corrispondenza tra James Lee Byars e Lucio Amelio prende la forma di una preziosa documentazione, in lettere di varie forme e colore in cui, pur comparendo accenni a progetti, come un progetto per Palazzo Reale a Napoli mai realizzato, il contenuto si trasforma in un pretesto espressivo ai limiti della comprensione: le parole, affidate alla leggerezza della carta, sono infatti spesso accompagnate da altri interventi grafici che trasformano questi messaggi in effimere esplorazioni sull’enigmatico senso dell’arte.
[Alessandra Troncone]