Dalla metà degli anni Sessanta Marisa Merz (Torino, 1926-2019) attraversa tecniche e materiali coniugando l’incessante sperimentazione con una sensibilità propriamente femminile. Unica donna tra i protagonisti dell’Arte Povera, con il gruppo partecipa a varie mostre, tra cui Arte povera più azioni povere ad Amalfi nel 1968, in occasione della quale presenta sulla spiaggia coperte arrotolate e imballate con filo di rame o scotch (Senza Titolo, 1966) e opere legate all’infanzia della figlia Beatrice realizzate con filo di nylon, rame o lana, tra cui Scarpette (1966) e Bea (1968). Sin da queste opere appare evidente come l’utilizzo di materiali “poveri” sia funzionale a tracciare una storia personale, lasciando spazio all’elaborazione poetica di brani della propria biografia, dove la ricerca di nuovi mezzi espressivi nell’arte incontra gli accadimenti della vita quotidiana.
Celebrata in una grande esposizione alla Serpentine Gallery di Londra nel 2013, nello stesso anno l’artista è stata insignita del Leone d’Oro alla carriera, in occasione della 55° Biennale di Venezia.
Mai vincolata ad un unico mezzo espressivo, la sua ricerca si avvale di soluzioni formali sempre diverse che vanno dal disegno alla scultura, dalla pittura all’installazione. In particolare, l’artista recupera tecniche proprie dell’artigianalità femminile, come il cucito e l’intreccio, insistendo sull’importanza della manualità del fare artistico.
Dagli anni Ottanta, parallelamente alla produzione di piccole teste modellate in argilla cruda già iniziata nel decennio precedente, Marisa Merz si dedica alla realizzazione di disegni e dipinti che vedono la centralità del volto, in particolare quello femminile, reso con un tratto veloce che richiama la forza e la resistenza del filo di rame e suggerisce al contempo l’intensità dello sguardo. “Le pitture e le sculture di Marisa Merz esprimono un grande turbamento dell’identità”, scrive Tommaso Trini, sottolineandone anche la natura “prefigurale”, ovvero di anticipazione, rispetto ad una compiuta e definita figurazione, di una figura che non ha ancora trovato, appunto, una sua stabilità.
Senza titolo, 1984, appartiene ad una serie di dipinti, in gran parte autoritratti, nei quali l’immagine pittorica è associata ad oggetti poveri e quotidiani quanto sinteticamente simbolici (in questo caso una forma geometrica in bronzo). La contaminazione della superficie pittorica con elementi estranei ad essa racconta lo sconfinamento dell’immagine bidimensionale nel mondo reale, con l’intento di far dialogare l’arte con la vita, la pittura con la scultura, l’arte con la materialità degli oggetti e l’essenzialità dei simboli.
La resa arcaica e stilizzata del volto rende la figura femminile un’icona che perde tuttavia la ieraticità dell’immagine sacra per acquisire una propria vitalità, suggerita dalla vivacità degli occhi che, con aria quasi trasognata, si rivolgono all’esterno del dipinto. Tutto ciò che accade entro la superficie limitata della tela dialoga con quello che avviene al di fuori, nello spazio reale dello spettatore e in quello immaginario evocato dall’artista.
La dimensione onirica, l’intimità e la delicatezza del gesto, la ricerca della convergenza tra la sfera privata – fatta di memorie personali – e quella pubblica, che caratterizzano tutta la produzione di Marisa Merz, sono state al centro della mostra personale che il museo Madre ha dedicato all’artista nel 2007, ripercorrendo la varietà della sua ricerca e del suo percorso artistico.
AT