Allievo di Adolfo Wildt all’Accademia di Belle Arti di Brera, Lucio Fontana (Rosario di Santa Fe, 1899-Varese, 1968) espone alla sua prima personale, nel 1930 alla Galleria del Milione a Milano, Uomo nero, opera in cui attesta un nuovo interesse verso una ricerca astratto-geometrica. A partire dalla seconda metà degli negli anni Trenta l’artista sperimenta l’uso della ceramica, mentre negli anni Quaranta realizza anche sculture a tuttotondo in mosaico colorato. Dopo la pubblicazione in Argentina del Manifiesto Blanco, rientrato a Milano nel 1947, Fontana firma il Manifesto dello Spazialismo, nel quale viene affermata, come si evince nella seconda versione, la necessità di far “uscire il quadro dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro”, per oltrepassare i linguaggi tradizionali e sperimentare la relazione fra l’arte e le nuove tecnologie. Questa tensione verso una differente concezione dell’opera inserita nello spazio conduce, nel 1949, all’Ambiente spaziale a luce nera, realizzato con elementi fosforescenti sospesi al soffitto della galleria milanese del Naviglio, resa completamente nera. La stessa ricerca, spinta sul versante del rapporto tra spazio interno e spazio esterno dell’opera, viene approfondita dal ciclo Buchi (1949-1968), opere pittoriche in cui la tela viene forata con un punteruolo prima in modo irregolare (“vortici di buchi”), poi in modo ritmico e organizzato. Dei primi anni Sessanta sono gli Olii, tele lacerate o bucate, di cui fa parte anche la serie dedicata a Venezia esposta alla prima mostra a New York alla Martha Jackson Gallery (1961). Dall’impatto con la città statunitense nascono i Metalli, lamiere specchianti e squarciate.
Dal 1958 al 1968 Fontana realizza i cicli dei tagli, Concetto spaziale e Attesa, in cui, come nell’opera in collezione, la lacerazione singola o reiterata della tela determina l’atemporalità del segno e la contaminazione fra lo spazio dell’opera e quello dell’ambiente che la circonda. Tale nuova misura dello spazio dell’opera, che non coincide più con la tradizionale idea di separatezza della tela rispetto alla realtà, viene ulteriormente indagata nella serie Fine di Dio (1963-1964), in cui tele ovali, dove talvolta sono apposti dei lustrini, sono cadenzate da buchi e lacerazioni, nei Teatrini (1964-1966), in cui compaiono anche elementi figurativi, e nelle Ellissi (1967), tavole di forma ellittica nelle quali i buchi vengono realizzati a macchina. Nel 1966 l’artista vince il premio alla Biennale di Venezia con una sala personale, dove realizza in collaborazione con Carlo Scarpa un ambiente ovale labirintico illuminato da una luce bianca e cadenzato da tele bianche attraversate da un taglio. Una estesa documentazione di proposte e progetti attestano il rapporto tra Fontana e il gallerista Lucio Amelio, in vista dell’organizzazione di una mostra mai realizzata a causa della morte dell’artista, che aveva esposto per la prima volta a Napoli con una personale alla galleria Il Centro nel 1963.
[Olga Scotto di Vettimo]