Joseph Kosuth è tra gli artisti e teorici più rappresentativi dell’Arte Concettuale, certamente il primo tentativo, compiuto, di pensare la pratica artistica come progetto semiotico: Art as Idea as Idea, recita, non a caso, uno dei più celebrati aforismi dell’artista.
Nel saggio Art after Philosophy (1969), Kosuth parte dal presupposto che l’arte “è analoga a una proposizione analitica” e, dunque, una tautologia. Adottando questa impostazione teorica, l’artista supera anche l’idea, attiva in quegli anni, della cosiddetta “dematerializzazione dell’arte” e si avvicina al rigore delle filosofie del linguaggio e della logica. In questa prospettiva l’arte si separa dall’estetica intesa come aisthesis (“sensazione”) per farsi interrogazione sulla “natura dell’arte”, a prescindere dal medium utilizzato. Affrancandosi dall’estetica, Kosuth rompe anche il nesso con la critica: “l’arte concettuale annette a sé la funzione del critico e rende superfluo l’intermediario” diventando, radicalmente, pratica critica e riflessione sull’arte. Opera significativa di questo assunto teorico è L’Ottava Investigazione (A.A.I.A.I), che inaugura, nel 1971, l’attività della galleria di Lia Rumma a Napoli e, contestualmente, il rapporto di lungo corso dell’artista con la città.
Nel 1975 Kosuth pubblica Artist as Anthropologist ed espone, di nuovo da Lia Rumma, Praxis, un lavoro espressamente pensato per la città di Napoli e per questo presentato bilingue: in italiano e in napoletano. È questa un’altra opera emblematica dell’artista, poiché segna un ripensamento dei suoi orientamenti precedenti a favore dell’antropologia marxiana e del pensiero di un filosofo come Habermas. Kosuth inizia in quegli anni a riconsiderare la struttura e la funzione dell’arte in relazione al contesto e al ruolo del pubblico, in quanto l’artista “è un modello di antropologo impegnato” che “opera all’interno dello stesso campo socioculturale dal quale si è evoluto”.
Successivamente il complesso sistema dei suoi riferimenti si allarga al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, accompagnato al pensiero di Nietzsche e Freud: il primo contribuisce a decostruire i miti della modernità, mentre Freud permette all’artista di “svolgere il filo” della sua stessa esperienza. Una strategia la cui parabola è leggibile in opere come Fort! Da! (1985) – il cui titolo fa riferimento a un celebre passaggio di Al di là del principio di piacere di Freud – e It was It #1 (1986), esposta nel 1986 a Castel dell’Ovo, Napoli, nella mostra “Rooted Rhetoric: una tradizione nell’arte americana” a cura di Gabriele Guercio. L’opera appartiene ad una serie in cui la scrittura e il dispositivo citazionista di matrice freudiana si accompagnano al neon, altro elemento caratteristico, dalla metà degli anni sessanta, del vocabolario plastico di Kosuth. “Volevo preservare una sottile relazione con l’idea di pubblicità della cultura di massa” dichiara Kosuth. Qualcuno ha detto che l’arte concettuale era la via di mezzo tra Pop Art e Minimal Art; io trovo questa tesi alquanto divertente. Quando lavoro con il neon uso caratteri che non si trovano nella pubblicità, così la gente ha soltanto una traccia dell’elemento pubblicitario”.
Neon e scrittura diventano in questo senso elementi complementari, atti a rivelare visivamente la complessità di proposizioni e di codici culturali che coinvolgono attivamente lo spettatore nel comprendere contenuti, significati e relazioni sospese tra rappresentazione iconica e verbale, e a giudicare quale di questi mezzi possa esprimere meglio l’essenza dell’oggetto. “In quanto artisti – sottolinea Kosuth – il nostro compito è chiaro benché non semplice: il lavoro veramente creativo dipende dalla capacità di mutare il significato di ciò che vediamo: un processo impossibile senza la comprensione di quelle strutture che lo costituiscono”.
EV