Originariamente componente del movimento dell’Arte Povera, Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994) partecipa alle mostre fondative del del gruppo, tra cui quelle a Torino, Milano e Genova, e alla terza Rassegna Internazionale d’Arti Figurative di Amalfi, realizzata nell’autunno del 1968. Dalla metà degli anni Sessanta Boetti sviluppa, indipendentemente dallo spirito poverista, una personale e stratificata pratica artistica che esplora, attraverso vari mezzi, concetti quali serialità (nel binomio ripetizione/variazione) e collaborazione, con un’attenzione particolare alla possibile molteplicità dell’identità (fino a autodefinirsi “Alighiero e Boetti”), e le dinamiche conoscitive insite nell’applicazione o modificazione delle regole che presiedono a ogni forma di comunicazione. Sfumando la distinzione fra discipline differenti – quali geografia, geometria, matematica, filosofia, letteratura, politica – e utilizzando materiali basici, come il disegno su carta quadrettata, o tecniche tradizionali, come la tessitura, il ricalco, la scrittura, Boetti supera la distinzione abituale fra avanguardia e tradizione, come fra arte e altre forme di sapere. Perseguendo costantemente il motto di “mettere al mondo il mondo”, le sue opere si configurano come forme applicate, integrate e condivise di conoscenza del mondo e dei meccanismi di pensiero umani.
Alla metà degli anni Sessanta, oltre a utilizzare materiali industriali come eternit, masonite, plexiglas, o naturali come il gesso, associati a azioni basilari come il riempire o l’occupare lo spazio, Boetti esegue una serie di disegni a china su carta in cui, sfidando la divisione fra bi- e tri-dimensione, riproduce oggetti industriali deputati alla registrazione (microfoni, cineprese, macchine fotografiche), come in una delle opere in collezione. Nel 1971 Boetti compie il primo viaggio in Afghanistan, dove si recherà periodicamente fino al 1979, e dove inizierà ad eseguire varie tipologie di lavori, fra cui i ricami su tessuto (come nell’esemplare della serie Ordine e Disordine, 1979 in collezione) e le Mappe, planisferi del mondo nei quali le singole nazioni sono raffigurate utilizzando colori e simboli delle relative bandiere (un lavoro che documenterà, nel corso del tempo, l’incongruenza fra la forma stabile del mondo e i cambiamenti della geopolitica umana), e la cui realizzazione sarà spesso delegata a ricamatrici afghane. A Kabul Boetti aprirà anche, nel quartiere residenziale di Sharanaw, una guest house, il One Hotel, cogestito con Dastaghir Gholam. Nel 1972 Boetti aveva dato avvio inoltre alla serie dei lavori a biro, in cui singole frasi vengono espresse attraverso un rimando alla sequenza alfabetica posta a lato (come nelle due opere in collezione a biro nera e blu).
Le opere di Boetti entrate a far parte della collezione del museo nell’ambito del progetto Per_formare una collezione sono state selezionate dall’artista messicano Mario Garcia Torres (Monclova, 1975) in occasione della sua mostra La lezione di Boetti (alla ricerca del One Hotel, Kabul). Tra le opere selezionate anche AW:AB=L:MD, il cui titolo, come spesso accade in Boetti, spiega con un paradossale e tautologico gioco linguistico il contenuto uno e plurimo dell’opera stessa: sovrapponendo l’iconografia seriale della Jackie Kennedy warholiana ai baffi che Marcel Duchamp appose all’icona artistica per eccellenza, la Gioconda di Leonardo, si delinea l’identità molteplice di quell’inesausto esploratore del mondo, dell’arte e dell’uomo (così come sono), di quell’artista sempre (almeno) doppio, e quindi perennemente performativo, quale appunto fu Alighiero (e) Boetti.
In questo gioco di rimandi identitari, Garcia Torres interviene anche con alcune sue opere, come le due placche in cui indica, separati, il nome e il cognome di Alighiero Boetti, e due cartoline. La prima riproduce un’immagine dell’One Hotel scattata nei primi anni settanta e inviata da Annemarie Sauzeau Boetti a Garcia Torres in occasione dell’inaugurazione della sua mostra al Madre. La seconda riproduce l’immagine, scattata da Garcia Torres, dei laghi afghani di Band-e-Amir, dove Boetti avrebbe desiderato far spargere le sue ceneri, desiderio mai esaudito a causa della guerra che ha afflitto il paese dopo gli anni Settanta. Inviandola a sua volta a Annemarie Sauzeau, l’artista messicano chiude il ciclo intimo del suo rapporto di progressiva identificazione con Boetti, assumendo su di sé il compito di esplorarne e riproporne la “lezione” umana e artistica.
[Andrea Viliani]