Vito Acconci (New York, 1940 – 2017) è un artista, poeta e architetto americano che, sin dalla fine degli anni Sessanta, ha esplorato i mezzi della scrittura, della performance, dell’installazione, dell’intervento pubblico e dell’architettura, facendo della relazione tra corpo e spazio il centro della sua ricerca. Il suo interesse verso i meccanismi con cui la soggettività si pone in relazione con l’esperienza dell’alterità ha permesso che il suo iniziale coinvolgimento nel campo dell’azione performativa – di cui è stato un pioniere e uno dei massimi protagonisti in ambito internazionale nel corso degli anni Settanta – si sia evoluto, già a partire dagli anni Ottanta, nella realizzazione di installazioni e strutture permanenti il cui sviluppo, nel 1988, è stata la fondazione dello studio di progettazione architettonica Acconci Studio.
La natura estrema (spesso ai limiti dell’autolesionismo) di molte delle azioni che Acconci ha realizzato negli anni Settanta – e che l’artista preferisce chiamare activities, invece che performances – è stata la cifra che ha da sempre caratterizzato il suo lavoro, che possiamo definire come una ricerca sui limiti e le condizioni della sensibilità umana, sulla sua vulnerabilità, sulla solitudine e sulla violenza come forma estrema di comunicazione. Molte delle sue azioni storiche si sono addirittura spesso svolte senza la presenza del pubblico e sono state concepite come incursioni anonime e spontanee nel tessuto urbano, al di fuori degli spazi espositivi deputati come le gallerie, per poi essere documentate in pannelli che combinano fotografie, testi, mappe e diagrammi, secondo l’estetica “documentativa” che ha caratterizzato l’Arte Concettuale. Ne è un esempio Room Situation, un lavoro del 1970 realizzato presso la Gain Ground Gallery di New York: nell’arco di tre weekend l’artista trasferì parte del contenuto della sua casa nello spazio espositivo, procedendo alla dislocazione temporanea e progressiva di camera da letto, cucina, living room e infine studio.
L’anno successivo Acconci realizza Seedbed presso la Sonnabend Gallery di New York, forse la sua opera più nota e controversa: lo spazio della galleria fu modificato attraverso una pedana sopraelevata rispetto al pavimento e sulla quale i visitatori erano liberi di camminare, mentre l’artista era nascosto al suo interno. Circondato dai suoni e dai movimenti delle persone che immaginava intorno a lui ma che non vedeva, Acconci si masturbava, per le otto ore consecutive di apertura della galleria, esternando le sue fantasie a un microfono che amplificava la sua voce nello spazio, senza che il pubblico potesse vederlo. In quest’opera l’architettura diventa una membrana che allo stesso tempo separa e mette in comunicazione tra loro intimità e spazio pubblico, desiderio e norme sociali, percezione uditiva e percezione visiva. Negli stessi anni Acconci utilizza il video come forma di documentazione di azioni che vedono il suo stesso corpo come principale medium, duramente messo alla prova attraverso gesti che ne testano la resistenza alla durata e al dolore, come nel caso dell’azione presentata alla Galleria Lucio Amelio di Napoli nel 1972. La dimensione della voce come sintesi tra l’interiorità e lo spazio della comunicazione e della condivisione diventa centrale nella seconda metà degli anni Settanta, quando l’artista ne studia le implicazioni percettive e installative in una serie di lavori audio, mentre inizia a sviluppare progetti di matrice più specificatamente ambientale, come Instant House (1980) e il controverso Way Station I (1985).
L’opera presentata nell’ambito del progetto Per_formare una collezione, intitolata Self-writing Billboard (“Cartellone auto-scrivente”, 1998), è una realizzazione dell’Acconci Studio, costituita da quattro pannelli composti in modo da formare un’unica superficie, sulla quale una serie di tagli permette alla luce retrostante di filtrare, rendendo leggibile la parola help (“aiuto”), attraverso le onde che animano le fenditure della lamiera. L’estrema semplicità e il grande impatto, tanto visivo quanto fisico, di questo lavoro echeggiano la poetica dell’Acconci Studio, i cui progetti architettonici sono spesso caratterizzati da un’estrema fluidità nel modo di concepire la separazione tra interno e esterno, come tra le fondamenta e l’alzato dell’edificio. Con la stessa fluidità la superficie di Self-writing Billboard si anima per lasciar intravedere le lettere che spiccano sullo sfondo scuro – a loro volta frutto di un gesto espressivo e violentemente corporeo come l’incisione –, creando in questo modo un’osmosi tra la sala limitata e rarefatta del museo e il multiforme spazio urbano esterno, fra l’immaterialità del messaggio luminoso e la solidità quasi monumentale della forma, tra il supporto del cartellone – sintomatico dell’integrazione tra pubblicità e architettura cui assistiamo come abitanti delle metropoli contemporanee – e l’urgenza di una richiesta di aiuto.
[Alessandro Rabottini]