Californiano d’origine e newyorkese d’adozione, Allan McCollum (Los Angeles, 1944) inizia il suo percorso negli anni Sessanta come attore di teatro. L’avvicinamento agli scritti e agli artisti del gruppo interdisciplinare Fluxus, insieme all’iniziale impiego per una società di imballaggio e trasporto di opere d’arte, lo indirizzano alla carriera artistica.
Alla base della sua ricerca vi è la riflessione sul rapporto tra l’oggetto comune e l’oggetto d’arte: partendo dal presupposto per cui il valore di un’opera d’arte è legato al concetto di autenticità, McCollum stravolge tale assunto producendo opere in serie secondo processi semi-industriali. Tutto il suo lavoro si fonda sulla differenza tra “l’idea” dell’opera, sull’aspettativa in essa riposta in quanto oggetto d’arte, e la sua condizione di prodotto, di merce; lo studio dell’artista, luogo per antonomasia dell’espressione del genio individuale, si trasforma in una catena di montaggio dove un gruppo di assistenti lavora a progetti sempre più ambiziosi. Tra questi vi sono i Surrogate Paintings, quadri monocromi in gesso smaltato realizzati a partire da stampi e installati tutti insieme sulla parete a rimarcare la natura seriale dell’operazione. Se il processo di produzione emula quello di una fabbrica, allo stesso tempo la diversità di formato mostra come, anche nella standardizzazione, sia possibile differenziare i prodotti rendendoli unici, generando una ripetizione sempre differente. Il continuo slittamento tra unicità e serialità, artigianale e industriale, individuale e collettivo, fa sì che le opere di McCollum diventino il punto di partenza per un’acuta riflessione sul rapporto tra arte e società di massa.
The Dog from Pompeii, presentato al Madre nell’ambito di Per_formare una collezione, è un progetto direttamente ispirato dalla città Napoli, dove viene esposto per la prima volta nel 1993, presso lo Studio Trisorio. McCollum parte qui dall’immagine del “cane alla catena”, calco in gesso realizzato su uno scheletro di cane durante lo scavo della domus di Vesonius Primus a Pompei, nell’Ottocento. Ottenendo una matrice dal calco originale (oggi esposto al Museo Vesuviano G.B. Alfano), l’artista moltiplica questa figura realizzando altri calchi in gesso e occupando con essi tutto lo spazio della galleria. L’opera non solo è emblematica nel mostrare il modus operandi dell’artista ma si carica di ulteriori significati: il punto di partenza non è infatti un oggetto comune ma la copia, ottenuta dalla forma in negativo, del reperto archeologico originario.Vi è dunque un doppio livello di riproduzione (il calco ottocentesco e poi quello dell’artista) che, doppiamente, mette in discussione il concetto di “originalità”. Allo stesso tempo, il procedimento del calco, ricostruendo una presenza a partire da un’assenza, diviene uno strumento attraverso il quale riappropriarsi del passato e trasmetterlo al futuro, lasciandone intatto il valore iconico e simbolico e, nel caso specifico, moltiplicandone l’effetto.
[Alessandra Troncone]