Jeremy Deller

Jeremy Deller, I love melancholy / Amo la malinconia, 1993. Collezione Ernesto Esposito, Napoli. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Jeremy Deller, I love melancholy, 1993. Ernesto Esposito collection, Naples. On loan to Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Naples. Photo © Amedeo Benestante.

La poetica di Jeremy Deller (Londra, 1966) richiama culture e tempi diversi, incita alla libertà di espressione come veicolo di senso e valori alternativi, attiva un dialogo trasversale che cortocircuita passato e presente giocando con gli stereotipi sociali. La sua ricerca si focalizza sulle sub-culture, sul cosiddetto “folklore”, sulle persone e in generale su tutto ciò che è umano, sviluppando una narrativa quasi lisergica, sospesa tra attualità e finzione, reale e immaginario. L’artista è soprattutto interessato ai meccanismi su cui sono strutturate le società contemporanee e alle disparate esperienze e relazioni degli individui che ne fanno parte, per questo motivo colleziona, archivia, fotografa e documenta bulimicamente tranches de vie prelevate dalla quotidianità.
In alcuni dei suoi lavori più rappresentativi Deller indaga l’eredità politica e culturale del suo paese, la Gran Bretagna, come in English Magic (2013), progetto che l’artista ha realizzato per rappresentare il Regno Unito alla 55. Biennale di Venezia. Un’installazione complessa e stratificata, che rifletteva i motivi topici della sua poetica e proponeva uno sguardo impietoso sulla società britannica, i suoi miti e riti, la sua storia politica e culturale, in una confusione crescente tra registri differenti: cultura alta e bassa, referenti presi in prestito dalla storia dell’arte e riferimenti alla pop culture, composti fra loro per creare un lavoro allo stesso tempo ironico e provocatorio, una narrazione impegnata a rivelare il rimosso dei nostri sistemi di convivenza ed espressione. Come in The Battle of Orgreave, progetto commissionato da Artangel nel 2001, che documenta – attraverso un colossale re-enactment (ri-creazione dal vivo) – le violente proteste dei minatori contro la polizia all’epoca delle riforme promosse dal governo conservatore di Margaret Thatcher (1984-85).
Nonostante il suo approccio anticonvenzionale e controverso, l’artista è diventato un’icona dell’arte inglese e ha vinto il prestigioso Turner Prize nel 2004 con il film Memory Bucket, dedicato agli scenari umani, sociali e culturali della grande provincia americana. La sua attitudine all’indagine storico-sociologica coinvolge spesso altre persone nell’ambito del processo creativo. In quest’ottica, diverse le tangenze con l’universo della musica: Acid Brass (1997), è la fusione improbabile tra l’Acid House di Manchester con il suono di una tradizionale banda di ottoni inglese; o ancora il lavoro presentato alla IV Biennale di Berlino (Kiezmerr Chidesch spielen ihre Komposition fur die 4 Berlin Biennale, 2006), in cui l’artista ha invitato a suonare una banda, i Kiezmerr Chidesch, quasi interamente composta di contadini immigrati dell’ex Unione Sovietica, a condividere e trasmettere la loro musica, densa di malinconia, nel contesto della Auguststraße, via ormai gentrificata dell’ex Berlino Est.
Originariamente presentata al Madre in occasione della mostra People. Volti, corpi e segni contemporanei dalla collezione di Ernesto Esposito nel 2006, I Love Melancholy è un’installazione composta da una scritta a stencil che si accampa su una parete dipinta di nero. Il lettering rassicurante e l’apparenza patinata (la scritta, con queste caratteristiche, era stata pensata per una T-shirt della maison francese agnès b.), stridono volutamente con il significato “melanconico” della frase, che funge da ironico contraltare contemporaneo a Melancolia I (1514), celeberrima incisione di Albrecht Dürer.
Questo lavoro diviene, in ultima analisi, la manifestazione evidente di uno stato d’animo comune al disagio della nostra epoca, soprattutto ma non solo fra i giovani, letteralmente “incarnato” da una ragazza “punk” romanticamente annoiata, che legge e ascolta musica accanto all’installazione, vivificandola. Questo elemento performativo, che completa l’opera, sarà attivato secondo un calendario consultabile all’ingresso del museo. Posta in dialogo metatemporale con la complessa esperienza del Living Theatre, documentata nella stessa sala, l’installazione di Deller rilancia e mette in prospettiva l’attitudine per-formativa della collezione del museo, ne incarna lo statuto riflessivo, attivo e partecipato, ne comunica l’esperienza e l’idea di una collezione viva.

EV

I love melancholy, 1993

Attualmente non esposta.