Artista eclettico, Giulio Delvè (Napoli, 1984) spazia con disinvoltura dalla scultura all’installazione, dalla fotografia alla performance. È un osservatore vorace e curioso, mosso da un approccio empirico, che attinge direttamente dalla realtà circostante il materiale e l’ispirazione delle sue opere, partendo sempre da oggetti reali rielaborati, reinterpretati, rifunzionalizzati. La sua è un’attitudine manipolatoria tesa a riassemblare brani di realtà preesistenti in nuovi contesti, piegandoli, in sostanza, a nuovi significati. “Per questo – afferma Delvè – se dovessi trovare un’espressione che possa spiegare la mia ricerca userei ‘pensiero laterale’, perché le mie opere non sono altro che un raccoglitore di significati, apparentemente sconnessi”. La sua personale mitologia è dunque radicata negli oggetti del quotidiano, il cui significato, ruolo e posizione spesso si spinge oltre la loro mera funzione pratica per entrare in un altro ordine di idee, apparentemente incongruo ma altamente simbolico, atto a creare nuove, possibili associazioni.
Enigma (2014) è un progetto site-specific emblematico di questa sua metodologia di lavoro, concepito per la Sala della Musica del museo Madre (ovvero per l’area lounge del bar del museo), indagando le molteplici affinità tra pratica musicale e scultorea. L’artista ridisegna l’intero ambiente, rivestendolo con una teoria di sculture/monoliti ottenute dal calco di pannelli insonorizzanti, utilizzati nella sala prove di una band napoletana. Il negativo così ottenuto, in gesso, contiene in sé tutte le informazioni e la memoria dell’oggetto copiato, un processo di trasmutazione esaltato dalla scelta stessa del materiale utilizzato: il gesso, che a sua volta passa velocemente dallo stato liquido a quello solido, un materiale ossimorico, la cui resistenza è imprescindibile dalla sua intrinseca vulnerabilità.
Ispirandosi al concetto di “auto-similarità” alla base della Teoria dei Frattali, già precedentemente utilizzata in altri lavori, Delvè assimila la forma dei pannelli fonoassorbenti alla facciata in bugnato a cuspide del Gesù Nuovo, tra le chiese basilicali più importanti di Napoli, un unicum nella storia dell’architettura del Meridione. Realizzato prima del più famoso Palazzo dei Diamanti a Ferrara, ad opera di Novello di San Lucano (1470), l’edificio nasce come residenza dei Sanseverino, principi di Salerno – di rara magnificenza, assicurano le cronache dell’epoca – cui è poi confiscato per volere di Filippo II sotto il viceregno di don Pedro de Toledo, poiché la famiglia aveva appoggiato l’insurrezione popolare contro l’introduzione, a Napoli, del Tribunale dell’Inquisizione (1547). Acquistato dai Gesuiti, il palazzo è sventrato, trasformato in chiesa (capolavoro della fiorente stagione barocca napoletana) e consacrato nel 1601. La facciata, lievemente modificata per le sopraggiunte esigenze cultuali, è l’unica testimonianza della vita precedente dell’edificio.
È relativamente recente (2010), la scoperta di venti simboli in aramaico, incisi su alcune di queste pietre, che rimandano a simboli alchemici: alcuni sostengono che questi simboli fungevano da “canali di flusso energetici”; altri che servivano ad identificare le diverse cave da cui le pietre erano state estratte; altri ancora li collegano alle potenti corporazioni dei maestri pipernieri; altri infine che si tratti di un pentagramma a cielo aperto, una partitura musicale ribattezzata dai suoi scopritori, per l’appunto, “Enigma”: un concerto barocco per strumenti a plettro della durata di circa tre quarti d’ora. Questi stessi simboli sono restituiti dall’artista in forma di neon che fungono, “alchemicamente”, all’illuminazione della sala.
In relazione ad uno dei principi che informa l’intero progetto di Per_formare una collezione, ovvero il legame fra museo e territorio qui esplicitato nel legame con il quartiere sul quale il Madre opera, le sedute di Enigma – tutte diverse tra loro e originariamente nate come prototipi – sono recuperate da una delle più antiche famiglie napoletane di artigiani intagliatori e produttori di sedie in stile, la cui bottega, ubicata nel vico Limoncelli, a pochi passi dal museo, è tra le ultime superstiti di una lunga generazione, custode di un sapere artigianale che, tramandato di padre in figlio, è destinata presto a scomparire per mancanza di una discendenza, e sopravvivente forse solo in questa “sala della musica”.
[Eugenio Viola]