Dopo aver frequentato la Scuola del Corallo di Torre del Greco e l’Accademia di Belle Arti a Napoli, e dopo numerosi viaggi, all’inizio degli anni Cinquanta Salvatore Emblema (Terzigno, 1929-2006) si stabilisce a Roma dove, nel 1954, tiene la sua prima mostra alla Galleria San Marco. Si trasferisce per alcuni anni negli Stati Uniti, dove conosce uno dei più importanti esponenti dell’Espressionismo Astratto americano, Mark Rothko, il cui linguaggio pittorico, caratterizzato da un’estrema sintesi cromatica e lirica, esercita su Emblema un’influenza profonda. Tornato in Italia alla fine del decennio, alla metà degli anni Sessanta conosce il critico Giulio Carlo Argan, che contribuirà alla definizione e all’analisi del concetto di “Trasparenza”, fulcro della ricerca dell’artista. Gli anni Settanta sono contrassegnati da numerose mostre, fra cui le personali in varie sedi istituzionali, tra cui Villa Pignatelli a Napoli e Palazzo dei Diamanti a Ferrara, a cura di Palma Bucarelli. Nel 1980 e nel 1982 partecipa alla Biennale di Venezia, e nel 1985 una sua personale è presentata presso il Palazzo Reale di Napoli. L’ostilità dell’ambiente accademico napoletano e il polemico dibattito artistico contemporaneo spingono l’artista a ritirarsi presso la sua Villa di Terzigno, alle falde del Vesuvio. Negli ultimi anni la figura e la ricerca artistica di Emblema, fra i più singolari esponenti italiani della ricerca pittorica nell’ambito dell’astrazione, sono tornate ad essere oggetto di riflessione da parte della critica.
L’opera entrata nel 2016, in donazione, nella collezione del Madre (Senza titolo, 1969), ha alcuni possibili titoli alternativi che ne indicano struttura, processo di composizione, effetto percettivo: Sfilato, Detessitura, Trasparente. Essa appartiene al primo ciclo di opere in cui l’artista focalizza la sua attenzione sul concetto di “Trasparenza”, evocata dalla relazione equilibrata fra trama e ordito del ruvido materiale tessile, dall’assenza di ogni intervento pittorico e da una composizione formale affidata solo all’effetto percettivo che si crea tra superficie in juta, telaio in legno e muro retrostante all’opera. La croce definita dalle assi del telaio, così come le chiavi di tensione del telaio, visibili dietro le sfilature perimetrali, divengono parte integrante della struttura, al contempo oggettiva e simbolica, dell’opera, che tende a stondare gli angoli, sfumare i limiti, alleggerire la consistenza.
La paziente, lenta, manuale de-tessitura (termine coniato da Bucarelli) della superficie pittorica consiste per Emblema in un processo, pratico e allo stesso tempo conoscitivo, di sottrazione selettiva dei fili di trama e ordito della tela, procedendo per pattern geometrici (rette, ortogonali, false diagonali), fino ad ottenere il passaggio della luce attraverso la superficie del quadro e la formazione di ombre sul muro retrostante, con effetti di trasparenza variabile che svelano la spazialità interna della materia prima della pittura stessa per Emblema: la tela, e ciò che esiste intorno ad essa, la luce, lo spazio, il tempo.
Scrive l’artista: “Che cos’è la trasparenza allora, se non il tentativo di eliminare ogni corpo opaco che si metta in mezzo tra i nostri occhi e la luce? Per secoli lo spazio dietro al quadro è stato uno spazio morto. Era necessario far vivere quello spazio, perché è là che la verità aspetta di essere scoperta, ancora ed ancora. Raggiungere L’Altro Spazio, andare alla Luce, è un problema fondamentale per tutti i pittori, come per gli amanti. Ma la pittura si è sempre fatta su un cosa (il quadro) che ne nascondeva un’altra (il muro). I corpi degli amanti invece, quelli, non si nascondono mai, nemmeno quando si coprono l’un l’altro. Di cos’è fatto il Cielo? Di niente! Di che colore è il Cielo? Nessuno! Il Cielo è Vuoto e Trasparente. Eppure d’Azzurro sostiene le Nuvole”.
[Andrea Viliani]