Cindy Sherman (Glen Ridge, 1954) approccia la fotografia con attitudine performativa, anche se i suoi scatti non sono una semplice documentazione di performance. Le sue messe in scena minuziose nascono per essere riprese dalla macchina fotografica e sono legate al codice linguistico peculiare al mezzo: composizione, formato, inquadratura, uso espressivo delle ombre e dei colori.
Gli Untitled Film Stills (1977-80) sono foto di piccolo formato, esposte a Napoli anche presso la Galleria Lia Rumma, in cui l’artista interpreta i ruoli femminili tipici degli anni Cinquanta-Sessanta, tratti dal cinema americano o dal neorealismo italiano. Sherman recupera gli schemi della comunicazione cinematografica, rappresentati come “pose” tratte da film immaginari, resi stranamente familiari per la tipicità delle situazioni e l’aspetto delle protagoniste, impersonate sempre dall’artista; caratteristiche che già annunciano i motivi topici della sua ricerca: l’uso del travestimento, la parodia degli stereotipi imposti alla donna dalla società, il ricorso ad immagini mutuate da un immaginario mediatico comune, l’imitazione di codici linguistici appartenenti alle cosiddette sottoculture, lo straniamento delle ambientazioni.
Con le successive serie fotografiche, a partire dall’allucinata digressione quasi aniconica di Disasters (1985-89), l’“abietto” (Julia Kristeva) si sposa al barocco, la dissoluzione organica si associa alla deformità: immagini repellenti di quelli che si scoprono essere cibi ma sembrano, a prima vista, poveri resti di una tragedia. Un’estetica del frammento assolutizzato ed eternizzato nella cornice dell’opera che prepara alla svolta inorganica delle Sex Pictures (1992), in cui l’artista ibrida spregiudicatamente materiale pornografico, protesi mediche, macchine gonfiabili, rimontando il tutto in maniera incongrua; tracce che diventano manifestazioni di un linguaggio isterico del corpo, ridotto a protesi da reinventare e riassemblare. Nei celebri History Portraits (1988-90), l’artista ripercorre la ritrattistica classica, per incarnare modelli immaginari desunti dalla storia della pittura figurativa in modo deliberatamente artificiale e caricaturale. Nella serie dei Clowns (2003-04) l’uso del digitale permette di realizzare fondi di colori vivaci e montaggi di numerosi personaggi, riassumendo e condensando la dimensione carnevalesca dell’opera di Sherman e tutto quello che la sua ricerca può avere di contraddittorio e di eccessivo.
L’opera in collezione, Untitled 299 (1994), appartiene ad una serie realizzata dall’artista per Comme des Garçons, che deliberatamente infrange e sovverte i codici iconici propri della fotografia di moda. D’altronde, la moda è il dominio di uno scambio tra la proiezione di sé e i codici dell’apparire e Sherman ne defunzionalizza le regole, producendo immagini disturbanti e talvolta morbose, in netta contrapposizione alla pratica dominante della stampa specializzata. L’artista da sempre mette in scena una miriade di alter-ego, un viaggio artistico esistenziale all’interno di tutte le identità possibili, che accomuna il suo modus operandi ad una serie di artisti che, nel nome di Marcel Duchamp e Claude Cahun, giungono ai giorni nostri, alcuni dei quali riuniti in questa sala.
EV