Rifuggendo i materiali moderni e le forme complesse, il lavoro di Gregorio Botta (Napoli, 1953) dichiara una radicale essenzialità, che si esprime attraverso una composizione minimale di elementi materiali e immateriali (cera, fuoco, acqua, vetro, piombo, insieme a luce, trasparenza, tempo, parola), nonché l’utilizzo di forme elementari e stilizzate (il cerchio, la casetta, la ciotola) che attingono a un universo culturale antico, antropologicamente connaturato.
Botta realizza strutture sospese, rarefatte, vibranti con cui dichiara la fragilità del sentire esistenziale e dell’immagine, che si offre come frammento, visione lirica, evanescente, inafferrabile (che affiora lentamente). I suoi lavori sono fecondi di memorie, indagini, ricerche sull’origine, si svolgono in uno spazio che si nutre del vuoto, del tempo assoluto e della visione emotiva. “I suoi lavori hanno bisogno di una dilatazione temporale. Chiedono sguardi prolungati e attenti, non hanno fretta di essere consumati. Quasi negano la loro presenza come immagini, perché a queste si associa l’idea di una fruizione rapida, qualcosa che le costringe a far parte di un mondo da sfogliare, da attraversare rapidamente”, come scrive Lea Mattarella.
Dopo gli studi con Toti Scialoja all’Accademia di Belle Arti di Roma, Botta intraprende una ricerca sull’encausto che lo conduce inizialmente all’utilizzo della cera, materiale di cui rintraccia il forte portato simbolico: come la pelle del corpo, la cera, materia viva e “sincera”, conserva la memoria dei segni, che, se solcati, si trasformano in ferite, cicatrici, tracce del proprio vissuto. Nelle sue opere compaiono anche altri materiali, con cui l’artista continua a esprimere la provvisorietà dell’esistenza: il bagliore del fuoco con la sua impronta sul vetro (il nerofumo), l’acqua con i suoi riverberi e il suo fluire, la parola e la scrittura che emergono in filigrana: dalle poesie di Emily Dickinson (Macro, Roma, 2012) ai versi di John Keats – Here lies One Whose Name was writ in Water (“Qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua”) – in cui il poeta dichiara la condizione di perdita a cui è destinato l’uomo (Palazzo Te, Mantova, 2014). Botta partecipa a due edizioni della Quadriennale (Roma, 1996; Napoli, 2003), e a Napoli sue opere sono presenti nella stazione Piazza Vanvitelli della Metropolitana di Napoli e alla Certosa di Padula.
Nei lavori più recenti l’artista inserisce piccole proiezioni: “naturale sviluppo della mia ossessione per il tempo, quindi per il movimento, da cui deriva il fuoco e lo scorrere dell’acqua”, come afferma l’artista. La proiezione, intesa quale flusso di immagini, quindi di memoria, si manifesta come scrittura o come disegno che appare mentre si compone. È quello che avviene nell’opera Non mi prenderai (2017), entrata in collezione al Madre nell’ambito del progetto Per_formare una collezione, in cui si intravede, al di sotto del lino cerato, una traccia d’acqua che insegue un cerchio disegnato sul vetro. “Ma il cerchio disegnato dalla luce non è così perfetto come quello – tutto mentale – che sta sul vetro: è un po’ più sporco, mediato dal corpo fisico della tela cerata, quasi un sudario. Ed è un cerchio che si insegue, si insegue, ma non riesce mai a chiudersi, a compiersi in una forma finita. Sogna di essere un hortus conclusus, ma resta aperto al soffio della vita, condannato al bellissimo esercizio di aspirare, senza raggiungerla, alla perfezione”.
[Olga Scotto di Vettimo]