Costantemente basate su una pulsione performativa, le opere di Francis Alÿs (1959, Anversa, Belgio) prendono spesso la forma di esplorazioni, di “passeggiate” in luoghi che divengono oggetto di un’articolata ricerca, in base a un processo creativo aperto, al contempo narrativo e documentario, fisico e metaforico. Sospesi tra reale e immaginario, gli attraversamenti di Alÿs sono tesi ad intercettare e reinventare, sul proprio cammino, i codici linguistici e culturali delle realtà con cui l’artista si è via via confrontato, sin dalle prime azioni di strada realizzate a Città del Messico, città in cui l’artista ha scelto di vivere dal 1986. È da allora che Alÿs conduce una ricerca caratterizzata da un’estrema sintesi formale che volutamente stride con quei contesti di urgenza, oppressione, emarginazione che spesso indaga.
Animate da una sensibilità, quindi, al contempo politica e poetica, le opere dell’artista sono come i singoli, spesso minimi, episodi di un unico discorso in cui la realtà è messa in scacco, sovvertita e riscritta dalla surrealtà di gesti al limite dell’assurdo e del paradosso, come spostare per ore un blocco di ghiaccio, tracciare un effimero confine di pace fra Israele e Palestina, tentare di spostare una montagna in Perù, o penetrare nell’occhio di un tornado. Nella loro transitorietà, precarietà, incompletezza, queste opere sono allegorie, parabole, sul ruolo dell’arte quale catalizzatore di realtà alternative, mere possibilità, al contempo immaginarie e rivoluzionarie, che scaturiscano dall’immaginazione e che riscattano e reincantano la realtà come la conosciamo.
Prodotto nel 2011 in occasione di dOCUMENTA(13), Reel-Unreel rappresenta il culmine emblematico della pratica artistica di Alÿs (e della sua ricerca in Afghanistan, condotta dall’artista dal 2010 al 2014), sia per la sua radicale reinvenzione e riproposta del medium adottato, in questo caso il cinema, sia per la sua matrice performativa sia, infine, per la sua unione fra impegno critico ed esperienza estetica. Il titolo fa riferimento all’azione presentata nel video (due ragazzi che “arrotolano e srotolano” per la strade dell’antica capitale dell’Afghanistan, Kabul, due bobine di pellicola cinematografica), così come alla pellicola stessa che “si svolge e riavvolge” nel proiettore cinematografico, anche se in italiano si perde l’assonanza fra i termini reel (“arrotolare”) e real (“reale”) / unreel (“srotolare”) e unreal (“irreale”), adottata dall’artista per indicare le conoscenza parziale, o appunto irreale, da parte dell’Occidente della realtà culturale, politica e socioeconomica Afghanistan contemporaneo.
Ispirato al classico gioco da strada del cerchio o della ruota, un tempo diffuso anche in Europa e ancora comune tra i ragazzi in Afghanistan (come documentato nel video Hoop and Stick (Children Game #7), all’origine del progetto), il gesto di far rotolare un cerchio è un esercizio di destrezza, consistente nel farlo rotolare per il maggior tempo possibile, senza che cada, con l’aiuto di un pezzo di legno. Nella versione di Alÿs il cerchio è rimpiazzato da una bobina cinematografica: un gruppo di ragazzi segue incuriosito lo srotolamento della bobina lungo le strade di Kabul, attraverso il centro storico, l’area del bazar, le banchine lungo fiume, i cumuli di spazzatura, le macerie di edifici distrutti dalla guerra, fino alle colline che guardano dall’alto la città, negli ultimi decenni divenuta meta di una massiccia emigrazione interna che ha generato sulle colline introno al centro un babelico intrico di baracche e case di fortuna. Il ragazzo che nel video srotola la pellicola traccia un percorso, immediatamente contraddetto da un suo coetaneo, che lo segue a distanza, intento a riavvolgere la pellicola ad un’altra bobina, come avviene in un proiettore cinematografico. L’intera città di Kabul è in questo modo trasformata in un set cinematografico improvvisato così come il gesto stesso del giocare si ribalta nella proiezione di un film tridimensionale che, coprendosi di polvere e detriti, reca con sé, nell’impressione materica della pellicola, la molteplice memoria di una comunità sospesa fra disintegrazione e ricostruzione, memoria e oblio, passato e futuro, dramma e gioco.
Analogamente ad altre opere dell’artista, Reel-Unreel allude a una dicotomia, da una parte il gesto di srotolare e dall’altro quello di arrotolare, che corrisponde, nel gioioso sovvertimento di ogni regola urbana (checkpoint ignorati, regole di comportamento disattese), alla creazione di una narrazione alternativa della città di Kabul che faccia risaltare il contrasto fra l’immagine reale e quella irreale dell’Afghanistan contemporaneo, “arrotolato e srotolato” ad uso e consumo dei media occidentali secondo agende giornalistiche, politiche e socio-economiche che dall’esterno hanno storicamente influenzato da secoli, e continuano a influenzare, la nostra conoscenza di questo paese, mai veramente compreso dall’Occidente.
Posti come siamo di fronte a una realtà di cui l’artista evoca tutte le sfaccettature, in un caleidoscopio in cui convivono realtà della cronaca e reinvenzione immaginaria, tentativo e fallimento, politica e poesia, acquista allora un senso la frase apparentemente surreale con cui si chiude Reel-Unreel, dopo aver evocato la distruzione, perpetrata dai Talebani, di migliaia di bobine filmiche nel piazzale antistante agli archivi dell’Afghan Film: quando alla fine del video la pellicola arrotolata e srotolata dai ragazzi si spezza, sancendo la fine del loro gioco, compare infatti questa frase, compendio e testimonianza del ruolo civile ma al contempo ludico, identitario e insieme visionario, di quest’opera, come forse di ogni opera d’arte, in ogni tempo: Cinema: Everything Else is Imaginary (“Cinema: Tutto il resto è immaginazione”).
[Andrea Viliani/Eugenio Viola]