La progettualità di Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) indaga, da oltre quindici anni, l’hinterland napoletano, dove si è trasferito a vivere, una realtà che, come tutte le periferie del mondo, per l’effetto massificante della globalizzazione, è caratterizzata da una confusione urbanistica dove predominano disordine, casualità, mancanza di coesione del tessuto edilizio, scarsa qualità della progettazione e riutilizzo cannibalico delle preesistenze, spesso sottoposte ad un processo di riqualificazione funzionale profondamente anarcoide. Questi luoghi, anzi questi nonluoghi, nell’accezione sociologica del termine, diventano l’oggetto privilegiato, quasi ossessivo, di indagine dell’artista, lo starting-point concettuale e materiale di produzione ed elaborazione di tutti i suoi lavori che confluiscono in una strategia estetica complessa, sospesa tra arte, architettura, urbanistica, su cui innesta un’azione di ricerca impietosa e scrupolosissima, a tratti chirurgica, tesa ad affrontare la relazione tra micro-cosmo umano e macro-cosmo urbano, per visualizzarne le laceranti contraddizioni, antropiche e sociali.
Contaminando fotografia, disegno (sempre centrale nella sua pratica) e installazione, Tibaldi ha sviluppato negli anni propri e inconfondibili modalità per ridiscutere lo spazio geografico e per contestualizzarlo politicamente. Tibaldi crea, in sostanza, spazi d’interferenze sociali, il cui metodo di indagine, originariamente applicato alla degradata periferia napoletana, a una realtà urbana grottesca, a noi contemporanea eppure già obsolescente, si carica col tempo di valenze documentarie che tendono a travalicare le contingenze geografiche di partenza, per assolutizzarsi in un’amara riflessione sulla società contemporanea, sulla “condizione periferica”, di cui restituisce i malesseri e i turbamenti. Nella tensione costante tra utopia e distopia, i suoi lavori trasformano fisicamente lo spazio urbano che diventa un palinsesto.
The Identity of Concrete (2015), è una mappa monumentale, realizzata assemblando alcuni lucidi originali, relativi a progetti che provengono dalla cartiera Mondadori di Ascoli Piceno. La cartiera è assunta dall’artista ad emblema degli edifici dismessi non riqualificati, giganti silenti inutilizzati che attivano reazioni emotive differenti: testimoni immobili e difficili, sospesi tra un passato industriale da rielaborare e un presente de-industrializzato da riattivare, che si pongono come spazio di riflessione comune. L’artista interviene sui lucidi ready-made incidendo le strutture portanti della cartiera, attiva un processo di sottrazione che contraddistingue, ab origine, la sua pratica, volta a far emergere, attraverso l’azione ossimorica del cancellare, significati e associazioni di pensiero potenziali. In questo caso, la luce penetra nei tagli e, nel gioco di luci e ombre, li anima come ricami, da cui i contorni dell’edificio sono restituiti estetizzati, donati ad una nuova vita possibile e rifunzionalizzati nel recinto simbolico e liberatorio dell’arte come del pensiero.
EV