I terremoti, le eruzioni del Vesuvio, le pestilenze, la crisi dei rifiuti, le sanguinose guerre di camorra: tutte le sciagure che la natura e l’uomo hanno scatenato nel corso dei secoli, assumono a Napoli il carattere di eventi costitutivi. Qui la verità dei fatti oltrepassa la realtà per slancio metafisico. È come se l’identità antropologica della città fosse costruita sulla necessità del tracollo, dello sprofondamento, del disfacimento ineluttabili. Niente veramente finisce o comincia. Tutto ritorna. E così ciò che è ostinatamente bello resta avvinghiato a ciò che è irrimediabilmente brutto, il bene al male, il giusto all’ingiusto.
Racconteremo questa lunga storia come un numerario di lutti infiniti, ma sappiamo che nessuno potrà mai separarla dal contrappunto retorico di una bellezza mitica, condannata alla ripetizione oleografica. Le tragedie napoletane hanno questo di particolare: sembrano oltraggi alla bellezza e anche, viceversa, minacciose e mirabolanti propagatrici di un’idea pericolosa e mortale del bello. Non di una fragilità o di una superficialità, ma di una finitudine della bellezza che attrae perché conscia della propria vitalità e dunque disposta naturalmente a morire. Come in una festa pagana dai toni lugubri anche la paurosa crisi dei rifiuti, l’immondo che divora la ricca e splendente mondanità del paesaggio napoletano, ripropone l’immagine più antica e più moderna di Napoli: la città che vede nella propria morte, nel proprio corpo che muore, l’estremo rifulgere della bellezza.
Qui si vuol dare voce al pensiero che sembra venire dal cuore di Napoli, dal suo fondamento oscuro di città votata alla catastrofe: la città che crocifigge se stessa è la nostra immagine, quella che Antonio Biasiucci, Doriana e Massimilano Fuksas, Mimmo Paladino e Tony Servillo hanno scelto di mettere in scena. Perché la croce è il segno più caro alla storia dell’arte, radicato nella tradizione e nel sentimento popolare della città, il segno che unisce terra e cielo, la morte che indica la resurrezione, la sofferenza che è gioia.
La scena è la Chiesa Donnaregina Vecchia. L’architettura dei Fuksas, come una gigantesca icona oldenburghiana, si erge faticosamente tra giunture, chiodi e puntelli che la tengono in equilibrio precario. Viene da una foresta di tronchi intorno all’altare, luogo di arrivo della via crucis incisa nel ferro e sulla carta da Mimmo Paladino: figure abbandonate sul pavimento o sospese e vaganti dalle volte fanno da coro alla voce di Tony Servillo che dice la città attraverso i suoi numeri. Nella piccola cappella laterale le immagini di Antonio Biasiucci raccontano la Napoli degli ex voto, una pausa di raccoglimento per il visitatore, un invito a concentrare lo sguardo e a pensare l’arte come gesto che si offre per eccesso, creazione e narrazione di un’idea e non rispecchiamento della realtà, adesione o denuncia.
Napoli in croce è un modo di afferrare Napoli in tempo reale, in presa diretta sulla catastrofe, ma con gli occhi spalancati sulla vastità della storia. Non possiamo fare a meno della bellezza, non possiamo fare a meno di Napoli, non possiamo fare a meno di una lingua e di un pensiero moderni.
Mimmo Paladino
Memoria e citazione, mimesi figurativa e ricreazione fantastica della realtà. L’arte di Mimmo Paladino affonda nell’inconscio della cultura mediterranea, per prelevarne simboli e leggende rimasti sepolti sotto il velo di una Ragione che riduce il mondo in perdite e profitti, santi e peccatori. I suoi stilizzati eroi e Don Quijote sono simulacri mitici di un universo notturno, che si muove dietro, prima e oltre identità sociali manifeste e rassicuranti consuetudini. Essi raccontano una storia antica e attuale, fittizia e reale, che restituisce come ricchezza la complessità della realtà umana.
Massimiliano e Doriana Fucksas
Le architetture di Massimiliano e Doriana Fucksas sono frutto di un confronto serrato tra due identità, che della propria reciproca diversità hanno fatto un punto di forza e di comunione. Sono il bottino di un colloquio compiuto tra sonno e veglia: quando il tempo scompare, condensandosi in una successione continua d’immagini che è pensiero. Da qui nascono oggetti tridimensionali dalle forme vaghe come nuvole o libere come vele, che una volta tradotti in segni e planimetrie, diventano infine spazi vivibili, abitabili, attraversabili da folle indefinite, tracciando una nuova esperienza della città.
Antonio Biasiucci
Tutte le sfumature del bianco e nero, il mistero del controluce e la luminescenza di dettagli minimi catturata all’interno di un nero totale, sono gli strumenti con i quali Antonio Biasiucci invita a un viaggio dentro l’oggetto e la sua percezione. Alla ricerca di visioni inedite e nuove prospettive capaci di dare alle cose un senso, aprendole all’immaginazione. Ecco allora che la riproduzione fotografica del reale diventa ricreazione della realtà, poiché l’occhio non vede oggetti, ma figure di cose che significano altro e restituiscono un oltre.
Toni Servillo
Analogamente a quanto accade alla realtà umana nel passaggio dalla veglia al sonno, così un attore entra ed esce dal personaggio che interpreta. In questa creativa trasformazione della propria identità e della propria immagine Toni Servillo da voce e corpo a uno spessore di affetti, sogni e speranze che, invisibile, resiste sotto la violenza del presente o la corazza di una quotidiana indifferenza. Una realtà che aspetta solo l’occasione per rivoltarsi al proprio destino di marionetta, ma che al contempo sa che non è sufficiente ribellarsi, bensì sapersi ribellare.