La pratica artistica di Fabio Mauri (1926-2009) – magistrale esponente delle neo-avanguardie della seconda metà del XX secolo e uno fra i più seminali artisti contemporanei italiani – è incentrata sull’esposizione dei meccanismi dell’ideologia, l’esplorazione dei linguaggi della propaganda, l’analisi dell’immaginario collettivo e delle strutture delle narrazioni mediatiche, a partire da quella cinematografica. Le sue opere e azioni – che comprendono pittura, disegno, scultura, installazione, performance – indagano la storia europea del “secolo breve” nei suoi conflitti e nelle sue contraddizioni, e trovano nell’indagine di un soggetto specificatamente europeo, quale appunto l’ideologia, e nell’intrinseco rapporto fra dimensione storica e dimensione etica, come nella tensione e ricomposizione fra sfera personale e collettiva, il loro fulcro intellettuale ed emotivo. Distanziandosi da un’originaria affinità con le coeve ricerche della Pop Art, Mauri ha perseguito una radicale autonomia, anche rispetto agli scenari dominanti della storia dell’arte contemporanea italiana, fino a definire una ricerca unica e personale, che coincide con il tentativo di dare rappresentazione al pensiero, di svelare i meccanismi di funzionamento della percezione (svelandone anche le strategie di manipolazione o i meccanismi di induzione propri della “società dello spettacolo”) e di far affiorare i percorsi potenziali della memoria e, al contempo, della sua sistematica rimozione o rimodulazione.
Organizzata in stretta collaborazione con lo Studio Fabio Mauri, la mostra al Madre, intitolata Retrospettiva a luce solida, è la più completa mai dedicata all’artista dopo la retrospettiva, nel 1994, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, e comprende più di cento fra opere, azioni e documenti, in un percorso che trasforma l’intero museo in un’esperienza critica dalla struttura molteplice, in cui l’opera si confronta con il suo progetto, il pensiero si fa fisico e il white cube museale si confonde con il palcoscenico teatrale e la scatola nera della sala cinematografica. Nel suo impianto di ricerca ed espositivo la mostra incorpora e trasmette il concetto di “luce solida” che compare in alcuni titoli delle opere dell’artista, in cui, richiamandosi alle Lampadine con i raggi solidificati futuriste, Mauri conferiva consistenza fisica al raggio che congiunge il proiettore e lo schermo cinematografico, traducendo così l’idea che tutte le componenti dell’esistenza hanno una “realtà”, ovvero cause e conseguenze reali: quindi anche il pensiero, l’immaginario, l’ideologia. Questa riflessione, successivamente affidata agli Schermi, alle Proiezioni e alle azioni performative, diviene metafora del rapporto tra mente e mondo, tra realtà e memoria, fra Storia e storie, trasformando, in occasione di questa mostra, il museo stesso in proiettore, così come il concetto di retrospettiva in una proiezione architettonica che avvolge lo spettatore, rendendolo parte attiva, soggetto/oggetto di questa narrazione, scandita in opere, azioni e documenti.
Il percorso della mostra parte al piano terra del museo, nella sala Re PUBBLICA MADRE trasformata in un vero e proprio Theatrum Unicum Artium (“teatro unico delle arti”), all’interno del quale sono esposte opere, installazioni e documentazioni (in cui anche la fotografia assume il rilievo e l’autorità pittorico-scultorea di una traccia essenziale) che ricostruiscono la matrice performativa e teatrale della ricerca dell’artista, con una selezione delle più importanti azioni di Mauri. Esse verranno riproposte periodicamente durante l’arco della mostra (Ideologia e Natura, 1973; Europa bombardata, 1978; L’Espressionista, 1982; Senza titolo, 1992) o presentate attraverso alcune essenziali componenti “sceniche” o opere connesse (Ebrea, 1973; Dramophone, 1976; Picnic o Il buon soldato, 1998; Fermata d’autobus, 1995) o, nelle tre sale del mezzanino, attraverso materiali documentari (Che cosa è il fascismo, 1971; Gran Serata Futurista 1909-1930, 1980; Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo, 1989). Su un piccolo palcoscenico sono anche presentati materiali (schizzi, maquette e fotografie di scena) della prima opera teatrale di Mauri, il monologo in due tempi e due scene intitolato L’isola (1960), la cui prima rappresentazione avvenne nel 1964, al Festival dei Due Mondi di Spoleto (interpreti Tomas Milian e Barbara Steele), e che fu poi ripreso nel 1966 al Teatro Stabile di Roma (interpreti Alberto Bonucci e Rosemarie Dexter).
In relazione a queste azioni sono inoltre presentate, come su un palcoscenico in cui lo spettatore può liberamente inoltrarsi, alcune opere fondamentali quali Manipolazione di cultura (1971-1973, terminata nel 1976), le opere-libro Ho pensato tutto (1972) e Linguaggio è guerra (1975), introdotte da Sala del Gran Consiglio (Oscuramento) (1975) e Il Muro Occidentale o del Pianto (1993), per culminare, con lo sguardo rivolto al pubblico, nelle due sedute di Teatrum Unicum Artium (2007), su cui campeggia la scritta “the end”: un teatro in cui viene messa in scena criticamente la Storia, un “teatro per restituire verosimiglianza a l’esistenza, che è inverosimile”.
La prima sezione della mostra al piano terra è seguita da una seconda sezione complementare, al terzo piano, in cui si articolano i gruppi di opere che destrutturano e restituiscono, interpretati, i linguaggi delle narrazioni mediatiche, a partire da quella cinematografica. Trasformando il terzo piano in un vero e proprio loop architettonico, il percorso procede cronologicamente e per gruppi di opere, fino a tornare al suo punto di partenza, in cui sono esposte le opere con cui, dalla seconda metà anni Cinquanta, l’artista inizia ad esplorare, in un’iniziale tangenza con le estetiche pop, la dimensione della comunicazione di massa (The End, 1957-1958; Braccio di Ferro, 1960; Cassetto, 1960; The Nursery News, 1960), poste in dialogo con uno degli “schermi” successivi, Schermo Leo Castelli (1974), dedicato alla figura di Leo Castelli, il gallerista storico della Pop Art nord-americana. Mauri abbandonò definitivamente, dal 1964, l’analisi dell’immaginario collettivo legato alle merci e alle icone di massa, per dedicarsi a un tema che caratterizzerà definitivamente il suo percorso di ricerca: quello dell’ideologia e dei modi di funzionamento della coscienza, ponendo in relazione la sfera personale e quella collettiva, e rinvenendo nel concetto di “schermo” e di “proiezione” i suoi momenti di sintesi.
Integrandosi a una serie di altre opere e materiali connessi ai significati e alle dinamiche della proiezione, sono presentati i principali lavori scultorei e installativi (Cinema a luce solida, 1968; Pila a luce solida, 1968; Colonne di luce, 1968) che indagano, rendendole concrete e tangibili, le dinamiche dell’identificazione fra spettatore e affabulazione cinematografica. Segue una selezione della serie degli Schermi, nelle loro varie declinazioni, fra cui: Schermo-Disegno (1957); Schermo (1958); Una tasca di cinema (1958); Cinema (1958-1965); Schermo carta rotto (1958-1989); Schermo (1958-1959); Schermo in legni bianchi (1959); Schermo in legno nero (1959); Drive in House (1960); Cosa è uno schermo o Schermo ovali (1962); La tasca del generale (1962); Schermo Sport (1962); Schermo con pubblico (1963); Marilyn (1964); Sinatra (1964); Schermo (1970); Schermo II generazione (1973).
Procedendo fino ad uno dei primi “zerbini”, fra le ultime serie realizzate dall’artista: L’ospite armeno (2001), vero e proprio schermo-soglia calpestabile e percorribile dallo spettatore. In una sala contigua è riproposta l’installazione Luna (1968) che, come appunto gli “zerbini” o Il televisore che piange (1972) e Ricostruzione della memoria a percezione spenta (1988), sembra letteralmente introdurci prima “sullo” schermo e poi “al di là” dello schermo, “dentro” di esso, in un ambiente mentale che conferisce consistenza tridimensionale al nostro immaginario.
Nella sala centrale è esposta l’opera a 36 schermi Warum ein Gedanke einen Raum verpestet? / Perché un pensiero intossica una stanza? (1972), in cui lo schermo coincide con l’estensione dell’architettura che lo ospita, insieme a un proiettore cinematografico 35mm in cui, al posto della pellicola, è inserita una tela bianca (Pittura, 1986-1996), meccanismo cinematografico che introduce dentro di sé anche la superficie di proiezione dello schermo. Il percorso culmina in una selezione di opere in cui il punto di vista si ribalta (dallo schermo quale superficie di proiezione al proiettore come fonte o punto emittente della proiezione), a partire dalle proiezioni in 16mm degli anni Settanta su corpi ed oggetti delle serie Senza e Senza Ideologia, fino a Intellettuale (installazione tratta dalla performance realizzata con Pier Paolo Pasolini nel 1975, in cui il regista divenne “schermo” del suo stesso film, Il Vangelo secondo Matteo) e all’opera successiva Fabio Mauri e Pier Paolo Pasolini alle prove di Che cosa è il fascismo 1971 (2005).
Il percorso al terzo piano si conclude con le più recenti proiezioni su supporto digitale e di impianto ambientale – fra cui: I casi del mondo e la signora Matisse (1988-2005), Cernobyl (1990); Murato vivo (2005); Cineart e Rebibbia 1 (2006); Piccolo Cinema (2007); Sfera (2009) – in cui l’architettura viene progressivamente inglobata nella proiezione evocando una dimensione fluttuante (Interno/Esterno, 1990), un’ipotetica architettura divenuta cinematica, in cui si lo spazio-tempo dell’architettura si fonde con quello del cinema e il nostro immaginario si fa acquisizione di consapevolezza: non più spettatori, ma soggetto/oggetto integrante e giudicante della narrazione a cui abbiamo assistito, in cui ci è stata progressivamente svelata la realtà tangibile (a “luce solida”) di quella straordinaria finzione che è – come ogni ideologia o narrazione storica, o come la mente umana – il cinema, e l’arte stessa.
All’esterno del museo, sul tetto-terrazzo, è infine presentata l’opera La resa (2002): una bandiera bianca issata su un palo, definizione dello stato d’impotenza del giudizio di fronte alla complessità del mondo, ma anche estremo tentativo o atto di comunicazione.
La sezione finale della mostra presentata in Sala delle Colonne (primo piano) è dedicata all’integrale corpus delle maquette architettoniche che ricostruiscono le principali mostre di Mauri, presentate per la prima volta insieme in una mostra personale dell’artista. Nella sua suddivisione in aree interdipendenti – che articolano fra loro le dimensioni interconnesse del “cubo bianco” museale, della “scatola nera” cinematografica e del “palcoscenico” teatrale (fino a spingersi, con alcune opere e proiezioni, anche all’esterno del museo/teatro/proiettore) – la mostra si propone al contempo come una messa in scena e uno strumento metodologico e critico: indagine del rapporto indelebile tra forme del pensiero e mondo, ovvero identificazione dei nostri pensieri, sia quelli individuali sia quelli collettivi, come un “mondo a luce solida”.
La prima mostra personale di Fabio Mauri, nel 1955, alla Galleria Aureliana di Roma, è presentata da Pier Paolo Pasolini, con cui Mauri aveva fondato nel 1942 la rivista “Il Setaccio” e con cui tornerà a collaborare ancora negli anni Settanta, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Nel 1957 realizza i primi Schermi, opere inizialmente monocrome che incarnano già l’interesse per le dinamiche dell’immaginario collettivo affidato alla finzione cinematografica, forme-oggetto approfondite negli anni seguenti. Nel 1964 alcune affinità iniziali con le ricerche coeve della Pop Art vengono definitivamente abbondonate, individuando nell’esperienza della guerra, prima rimossa e poi affrontata con implacabile lucidità, e quindi nell’ideologia quale elemento caratterizzante della cultura europea, l’asse portante, sia a livello tematico che concettuale, della sua ricerca successiva. Da cui originano, a partire dall’inizio degli anni Settanta, anche le azioni e le Proiezioni. Nel 1968 è fra i co-fondatori della rivista “Quindici” e nel 1976 della rivista “La Città di Riga”. Per venti anni insegna Estetica della sperimentazione all’Accademia di Belle Arti di L’Aquila. Nel 1994 la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma gli dedica la prima retrospettiva, a cui seguono quelle alla Kunsthalle di Klagenfurt (1997), Studio National des Arts Contemporains di Le Fresnoy-Lille (2003), Palazzo Reale di Milano (2012), Fundación PROA di Buenos Aires (2014). Fra le numerose mostre collettive, l’opera di Mauri è presente in varie edizioni della Biennale di Venezia (1954, 1974, 1978, 1993, 2003, 2013, 2015) e, nel 2012, a dOCUMENTA(13) a Kassel.
In contemporanea alla mostra al Madre, dal 7 ottobre 2016 al 15 gennaio 2017 la GAMeC-Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo ospita una differente retrospettiva dedicata all’artista che, insieme alla mostra a Napoli e a complemento della stessa, contribuisce a restituire un profilo esaustivo della sua ricerca.