La pratica artistica di Mario Merz (Milano, 1925-2003) si sviluppa come un percorso all’interno della materia e dell’energia: sin dalle sue prime opere pittoriche, improntate su un linguaggio di stampo informale, l’artista si focalizza sulla possibilità di spingersi oltre la superficie bidimensionale della tela per approdare allo spazio, facendo della pratica artistica uno strumento per indagare le forme e la forza dei processi naturali.
L’uscita dal quadro avviene alla metà degli anni Sessanta, quando Merz realizza i primi lavori al neon: la fonte luminosa è utilizzata per trapassare oggetti di uso quotidiano, quali una bottiglia, un ombrello, un impermeabile. La corrente energetica che attraversa questi elementi si fa metafora dell’arte: “L’arte è l’unica cosa che permette di attraversare le cose. È un processo di attraversamento, non di arrivo”, afferma l’artista. Alla fine del decennio Merz approda all’igloo, che diviene forma riconoscibile della sua poetica: realizzate con materiali diversi, privilegiando il connubio tra organico e inorganico, naturale e industriale, queste strutture primitive funzionano come microcosmi potenzialmente abitabili, nuclei arcaici e primordiali che mettono in relazione interno ed esterno. Sono gli anni in cui Germano Celant conia la definizione di Arte Povera, includendo Merz tra gli artisti che sperimentano un nuovo tipo di approccio allo spazio-tempo e alla materia.
Dal 1970 nel lavoro di Merz compare la serie di Fibonacci: l’opera Londra pub irlandese George V è uno dei primi esempi dell’adozione della sequenza aritmetica elaborata dal matematico italiano vissuto tra il XII e il XII secolo, utilizzata da Merz come strumento di misura armonica per riportare nelle sue opere la stessa sequenza che regola lo sviluppo dei fenomeni naturali. Ogni numero è la somma dei due precedenti, secondo una logica ciclica che aspira a codificare la pulsione vitale di crescita che esiste in natura, rendendola esplicita. Le fotografie in bianco e nero, cui sono legati i numeri della sequenza realizzati con tubi al neon, raffigurano l’interno di un pub di Londra: le persone che vi compaiono divengono organismi che seguono lo stesso meccanismo di proliferazione numerica che regola appunto i fenomeni naturali. La teorizzazione di Fibonacci è riportata alla misura dell’uomo e, attraverso la sequenza, l’artista trasforma gli ignari consumatori del pub in moltiplicatori di energia.
La presenza di Mario Merz a Napoli è stata costante, grazie anche al suo rapporto con Lucio Amelio: oltre alle mostre nella galleria napoletana, nel 1978 e nel 1981, a Merz è stata dedicata un’importante mostra a Villa Pignatelli nel 1976, mentre è del 1987 l’ingresso della sua opera Onda d’urto nella collezione di arte contemporanea del Museo Nazionale di Capodimonte.
[Alessandra Troncone]