Alighiero Boetti

Foto © Amedeo Benestante.

Originariamente componente del movimento dell’Arte Povera, Alighiero Boetti partecipò, tra le altre mostre fondative del movimento, alle mostre del gruppo a Torino, Milano e Genova, e alla terza Rassegna Internazionale d’Arti Figurative di Amalfi, realizzata nell’autunno del 1968. Dalla metà degli anni sessanta Boetti sviluppò, indipendentemente dallo spirito poverista, una personale e stratificata pratica artistica che esplora, attraverso vari mezzi, concetti quali serialità – nel binomio ripetizione/variazione – collaborazione – con un’attenzione particolare alla possibile molteplicità dell’identità (fino a autodefinirsi “Alighiero e Boetti”) – le dinamiche conoscitive insite nell’applicazione o modificazione delle regole che presiedono a ogni forma di comunicazione. Sfumando la distinzione fra discipline differenti – quali geografia, geometria, matematica, filosofia, letteratura, politica – e utilizzando materiali basici, come il disegno su carta quadrettata, o tecniche tradizionali, come la tessitura, il ricalco, la scrittura, Boetti supera la distinzione abituale fra avanguardia e tradizione, come fra arte e altre forme di sapere. Perseguendo costantemente il proprio motto di “mettere al mondo il mondo”, le sue opere si configurano come forme applicate, integrate e condivise di conoscenza del mondo e dei meccanismi di pensiero umani.
Alla metà degli anni sessanta, oltre a utilizzare materiali industriali come eternit, masonite, plexiglas, o naturali come il gesso, associati a azioni basilari come il riempire o l’occupare lo spazio, Boetti esegue una serie di disegni a china su carta in cui, sfidando la divisione fra bi- e tri-dimensione, riproduce oggetti industriali deputati alla registrazione (microfoni, cineprese, macchine fotografiche). Nel 1970 conclude la serie dei Viaggi postali (o Dossier postale) iniziata l’anno prima, primo lavoro postale in cui i francobolli sono apposti sulle buste secondo tutte le possibili combinazioni e permutazioni (“ho usato i francobolli per i loro colori come un artista usa un pennello o i pastelli”). Nel 1971 Boetti compie il primo viaggio in Afghanistan, dove si recherà periodicamente fino al 1979 (anche in compagnia dell’artista Francesco Clemente), e dove eseguirà vari lavori, fra cui i primi ricami su tessuto e le Mappe, planisferi del mondo nei quali le singole nazioni sono raffigurate utilizzando colori e simboli delle relative bandiere (un lavoro che documenterà, nel corso del tempo, l’incongruenza fra la forma stabile del mondo e i cambiamenti della geopolitica umana), e la cui realizzazione sarà spesso delegata a ricamatrici afghane. A Kabul Boetti aprirà anche, nel quartiere residenziale di Sharanaw, una guest house, il One Hotel, cogestito con Dastaghir Gholam. Negli anni ottanta, costretto a lasciare definitivamente l’Afghanistan, Boetti lo celebrerà con un’opera in cui le sue due mani sono intente a tracciare una doppia linea (alto/basso; destra/sinistra), che converge in un molteplice ritratto della silhouette dell’Afghanistan. L’opera rivela l’impostazione serigrafica di tante altre opere del periodo. Nel 1972 Boetti aveva dato avvio inoltre alla serie dei lavori a biro e dei ricami in cui singole parole e frasi (in italiano o afghano) vengono riquadrati in un tentativo di sistematizzazione aperto e provvisorio del linguaggio, come nella serie Ordine e disordine.
Alcune delle opere descritte entrano a far parte della collezione del museo, selezionate dall’artista Mario Garcia Torres in occasione della sua mostra, “La lezione di Boetti (alla ricerca del One Hotel, Kabul)”. Una di queste opere apre anzi il percorso della collezione, AW:AB=MD:L, il cui titolo, come spesso accade nelle opere di Boetti, spiega con un paradossale e tautologico gioco linguistico il contenuto uno e plurimo dell’opera stessa: sovrapponendo l’iconografia seriale della Jackie Kennedy warholiana ai baffi che Marcel Duchamp appose all’icona artistica per eccellenza, la Gioconda di Leonardo, si delinea l’identità molteplice di quell’inesausto esploratore del mondo, dell’arte e dell’uomo (così come sono), di quell’artista sempre (almeno) doppio, e quindi perennemente performativo, quale appunto fu Alighiero (e) Boetti.

AV