Tomaso Binga

Tomaso Binga, Alfabetiere murale, 1976. Collezione Archivio Menna-Binga, Roma. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Tomaso Binga, Alfabetiere murale / Mural Alphabet, 1976. Archivio Menna-Binga collection, Rome. On loan to Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Naples. Photo © Amedeo Benestante.

Tomaso Binga è l’alter ego di Bianca Menna, uno pseudonimo che col tempo si è fuso quasi indissolubilmente con la sua persona, espressione di un’artista che frequenta, coerentemente, da più di quarant’anni, i territori della poesia e della pittura, indagandone i rapporti sottili e le relazioni possibili.
La pratica dell’arte come scrittura, che ha accompagnato tutto il suo percorso artistico-esistenziale, ha trovato nell’uso della parola, del gesto e del corpo, un suo esito organico. Dalle prime performance affidate al gesto (Vista Zero, 1972), al gesto e alla scrittura (Nomenclatura e l’Ordine Alfabetico 1973- 1974), è passata nel 1977 con Poesia Muta, Ti scrivo solo di Domenica, Io Sono una Carta, a performance poetiche affidate esclusivamente alla sonorità della parola di chiaro segno femminista e di denuncia di tutte le più scottanti problematiche sociali legate alla condizione della donna costretta in una società ancora brutalmente maschilista.
Tomaso Binga ha rivalutato i valori ritmici e timbrici della parola per dare calore e colore alle armonie del verso, dove il significato e il significante s’intrecciano e si alternano in un continuo e controllato gioco di prevaricazioni. Ironia e grottesco, denuncia e dissacrazione, nonsense e luogo comune sono stati gli ingredienti principali delle sue poesie performative che con la poesia sonora si sono arricchite dell’energia corporea necessaria per stabilire un tramite più diretto tra il testo e il fruitore. L’artista lavora ai confini della parola e ai bordi della pittura sperimentando forme e modelli, strumenti e tecniche, risoluzioni suggestive e insolite. Adoperando, per rendere ancora più perturbante questo legame, non soltanto parole e immagini ma anche la voce e il corpo, la gestualità e il suo essere.
La parola, ricondotta ai suoi elementi primari ed essenziali e l’immagine, si accompagnano alla voce e al linguaggio del corpo. Il corpo e l’esperienza diventano in questo modo il luogo dove le parole e i segni grafici, il visivo il letterario e il poetico si fondono e si confondono. Il passaggio dall’immagine alla scrittura è, in questo senso, quasi una trasformazione naturale. In due opere del 1972, ad esempio, Attesa e Silenzio, Binga introduce la parola per sottolineare il significato di un’immagine di donna rappresentata, nella prima opera, da un volto collocato dietro una finestra-prigione e, nella seconda, ancora di un volto privo della bocca. In una fase successiva, ascrivibile alla serie dei Paesaggi, le parole si accompagnano ai segni iconici fino a diventare esse stessi immagini. Binga ha poi continuato a lavorare in questa direzione riducendo progressivamente la componente semantica della scrittura, riconducendo le parole a segni.
In questo senso poesia scritta, poesia visiva e poesia recitata fin nella loro costruzione diventano scansioni progressive di una medesima idea. Non a caso “il mio corpo è anche il corpo della parola”, dichiara l’artista, perché Binga, lo ha sottolineato Stefania Zuliani, è “poeta totale che sfugge con inflessibile allegria agli obblighi del genere e vuole sopra ogni cosa appartenere al mondo, costruisce il suo flessibile alfabeto, fatto di segni e di gesti sonori, di accenti e invenzioni irriverenti, lavorando appunto sul corpo, sul suo stesso corpo di donna che, fuori dalle convenzioni, da ogni conno- tazione sociale, diviene inequivocabilmente lettera e simbolo”.

EV

Alfabetiere murale, 1976

Attualmente non esposta.