English for Foreigners è la prima mostra personale in un’istituzione pubblica italiana di Stephen Prina (Galesburg, Illinois, 1954), uno dei più seminali e influenti artisti nordamericani contemporanei, la cui ricerca – che si articola fra opere visive, sonore e performative – esplora l’eredità delle pratiche artistiche concettuali degli anni Sessanta e Settanta, analizzandone sia le matrici storiche che le possibili trasformazioni. Concepita dall’artista come seguito ideale delle due mostre personali galesburg, illinois+ dedicate alla sua città natale e presentate nel 2015 e nel 2016 presso Kunst Halle Sankt Gallen (Svizzera) e Museum Kurhaus Kleve (Germania), la mostra al Madre presenta una serie di opere inedite, ideate appositamente per questa mostra.
Al Madre l’artista ripercorre infatti a ritroso il viaggio che condusse suo padre, nella prima metà del XX secolo, dall’Italia fascista agli Stati Uniti d’America. Scrive l’artista: “Peter (Pietro) Prina, mio padre, suonava il clarinetto in una banda locale nel Comune di Canischio, in Piemonte. Un giorno le Camicie Nere sono arrivate e hanno preteso che la banda suonasse l’inno del Partito Nazionale Fascista. Questo evento lo convinse che era il momento di emigrare dall’Italia – e venire in America – aveva 17 anni, era il 1923”. Second Book in English for Foreigners in Evening Schools di Frederick Houghton (American Book Company, 1917), è il titolo del libro utilizzato, nella sua vicenda biografica, dal padre dell’artista per apprendere la lingua della sua nuova patria: passato a Prina, fra molti altri oggetti e ricordi del padre, è divenuto il punto di partenza di questa mostra, in cui le singole date e i relativi eventi si concatenano, dal 1917 al 2017, raccontando una storia personale che però, potenzialmente, rispecchia quella di molti altri padri e figli.
“Mio padre aveva scritto delle annotazioni sui risvolti e sulle pagine del libro, liste di parole e frasi, evidenziato passaggi, o semplicemente cerchiato i numeri delle pagine”. Prina ha scansionato ogni doppia pagina del libro contenente almeno una di queste note realizzando diciotto stampe di uguale formato e un trittico digitali che documentano il processo di apprendimento da parte del padre della sua nuova lingua (l’inglese) dopo l’arrivo nella sua nuova patria (gli Stati Uniti). Il testo del libro contiene inoltre quarantacinque immagini e un frontespizio che, anche senza didascalie, servono da modello per fare dell’immigrato un “cittadino perfetto” mostrandone, per esempio, la vita domestica ideale mentre è alle prese con problemi idraulici o fronteggia un attacco di difterite o nell’atto di familiarizzarsi con la storia nordamericana.
Questa sequenza di illustrazioni, trasposta dall’artista in un portfolio di altrettante acqueforti allestite a parete, non solo rappresenta le varie fasi della progressiva acquisizione di una nuova identità pubblica da parte di Peter/Pietro Prina, e quindi il cambiamento radicale della storia della sua famiglia, ma svolge anche un possibile confronto critico fra i modelli apparentemente dicotomici di “cittadinanza ideale” che hanno segnato, nell’opposizione fra totalitarismo e democrazia, la storia politica, sociale e culturale del XX secolo. L’artista imposta in questo modo la mostra come un viaggio nel tempo che si articola da un lato come un’analisi della storia del XX secolo, e dall’altro come il racconto di una famiglia e della relazione fra un padre e un figlio.
“Nel 1968, quando avevo 13 anni, ho provato a fare una copia su scala più piccola di San Giuseppe falegname di Georges de La Tour“. Basandosi su una riproduzione del dipinto contenuta nel volume 100 Masterpieces (1964) – la stessa che utilizzò per quel suo primo tentativo – Prina realizza in occasione di questa mostra un’altra copia del dipinto alla grandezza originale (137 x 102 cm) ma in forma di dittico (137 x 204 cm). Il dittico recupera quindi anche un riferimento alle matrici serigrafiche monocrome dei primi ritratti di Andy Warhol (come quelli dell’attrice Elizabeth Taylor mostrati da Lucio Amelio a Napoli nel 1971) ed è presentato come una coppia costituita una nuova replica del dipinto originale – che appare identica all’originale anche se, ad un’ispezione ravvicinata, è possibile notare che essa è realizzata con tecniche pittoriche difformi da quelle barocche originali – e un pannello monocromatico della stessa dimensione, di color terra d’ombra bruciata, da cui affiora, come un’immagine specchiata, la stessa composizione.
Questa copia di La Tour appare identica all’originale ma, ad un’ispezione ravvicinata, è possibile notare che essa è realizzata con tecniche pittoriche difformi da quelle barocche originali. Prina ha inoltre scansionato e stampato digitalmente su vinile due sezioni della prima copia dell’opera da lui eseguita nel 1967: queste due sezioni, che raffigurano uno scalpello di legno e una spirale di trucioli, rappresentano i dettagli preferiti dall’artista del dipinto originale. . Uno di essi – il ricciolo di legno caduto a terra, ai piedi di Gesù intento ad osservare il padre al lavoro, è replicato dal vero su un tavolo-altare posto al centro della mostra, in tre versioni (cipresso, credo e pino) che, secondo un’interpretazione del Vangelo, corrisponderebbero ai tre tipi di legno con cui fu scolpita la croce del martirio di Cristo. Un articolato processo di ricreazione che esplora l’affinità fra diverse pratiche artistiche, anche molto distanti nel tempo, e l’affettuosa quanto dolorosa prossimità fra un padre e suo figlio.
La mostra prevede anche una componente musicale, presentata nella conformazione composta da casse acustiche concepita dall’artista per le opere della serie The Second Sentence of Everything I Read is You (2006-in progress). Una griglia di altoparlanti trasmette alcune composizioni: una cover di Giovinezza, un inno del Partito Nazionale Fascista che Prina reinterpreta come versione strumentale con la traccia vocale suonata dal clarinetto (strumento che il padre suonava nella banda a Canischio), si fonde con una canzone composta dall’artista incorporando parole e frasi delle note redatte dal padre nel libro Second Book in English for Foreigners in Evening Schools, e due cover di Bella Ciao, inno della Resistenza italiana, e Sabato Sera, brano di Bruno Filippini che i genitori dell’artista gli portarono nel 1964 in regalo da un loro viaggio in Italia, il primo per suo padre dalla sua fuga nel 1923.
Uno degli elementi caratterizzanti del progetto è anche il design tessile, in cui ricorre lo stesso pattern decorativo, elaborato dall’artista come ulteriore palinsesto memoriale della mostra: la copertina anteriore e posteriore e il dorso di Second Book in English for Foreigners in Evening Schools, un sobrio disegno marrone, è ricontestualizzato in una griglia che riporta, in rosso, la scritta “Pete’s Meat Can’t Be Beat” (“La carne di Pete non si batte”), slogan del negozio di alimentari del padre di Prina a Galesburg. Lo stesso pattern in stoffa è utilizzato per foderare tutti i materiali di allestimento delle varie opere in mostra: dalla vetrina in cui è contenuto il libro originale, insieme ad altri oggetti e documenti, agli altoparlanti e ai cuscini posti sulla cassapanca con cui sono stati trasportati, fino a comparire come immagine-cornice nelle scansioni del libro e dell’immagine di Canischio e del portfolio di acqueforti. Lo spazio espositivo e tutta la corporate identity della mostra utilizza invece, quale colore principale e riferimento alla collocazione temporale della mostra stessa, il Colore Pantone dell’Anno 2017 (Greenery).
Durante la preparazione di questo progetto, l’artista ha infine rinvenuto inoltre un’istantanea di Canischio scattata da suo fratello Gary nel 1973, quando andò in visita al paese natale del padre, quattro anni dopo la sua scomparsa. Si tratta di una fotografia quadrata con la scritta “MAR 73” (marzo 1973) stampata sul bordo bianco, e ormai sbiadita, con un cielo azzurro purissimo, la neve sulla catena montuosa retrostante e un desolato paesaggio invernale in primo piano. L’immagine originale è stata scansionata, stampata digitalmente su vinile e ingrandita su scala monumentale, come l’analoga immagine dell’Harbor Lights Supper Club in cui culminavano le due precedenti mostre galesburg, illinois+. Posta al fondo della mostra in scala ambientale, l’immagine del piccolo paese natale del padre – su cui viene proiettato il film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet Fortini Cani (1976) – diviene l’orizzonte stesso della mostra, assumendo una qualità “atmosferica” in termini sia di profondità spaziale che di approfondimento memoriale. Ispirato al libro dell’intellettuale comunista ed ebreo laico Franco Fortini I cani del Sinai, nel film si mostrano i paesaggi di altri paesi e villaggi (Marzabotto, Bergiola, San Leonardo), sovrapponendo le testimonianze della Resistenza del settembre 1944 che li si svolse con questioni contemporanee come la memoria della Shoah, la questione israelo-palestinese e il perpetrarsi di varie forme di razzismo.
Nel collocare la propria vicenda autobiografica in un contesto più generale, Prina fa riferimento in questo progetto, oltre che ai film dei registi Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, anche allo scrittore italiano Cesare Pavese. Nel romanzo La luna e i falò (1949-50), per esempio, Pavese racconta la storia di un emigrante (di cui è citato solo il soprannome, Anguilla) che lascia l’Italia per cercare fortuna in America e farvi ritorno dopo la Seconda Guerra Mondiale, spinto da un inestinguibile senso di appartenenza: “un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti […] un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Da questo testo – in cui, analogamente al progetto di Prina, il passato e il presente si sovrappongono inestricabilmente – e da alcuni passaggi della raccolta pavesiana di racconti Dialoghi con Leucò (1945-47) ha origine un altro film di Straub-Huillet, Dalla nube alla resistenza (1978). Da un piano sequenza di un monumento alla Resistenza italiana – ripreso a partire dalla base, con le sue iscrizioni di dedica, proseguendo lungo l’obelisco centrale per giungere fino alla cima – sono tratti alcuni disegni dell’artista.
I temi sviluppati in queste opere narrative e filmiche – nella loro disanima degli intrecci fra stanzialità e migrazione, affermazione dell’identità e suo sradicamento, monumentalità e intimità – sono riportati dall’artista come scritte viniliche a muro, che costellano l’allestimento esplicitando le radici emotive e concettuali del progetto di Prina al Madre. Un vero e proprio racconto per immagini e suoni che, dalla storia di un padre e un figlio, si articola fino a divenire la possibile esplorazione dello statuto dell’opera e della mostra quale serbatoio di riferimenti multipli e analisi delle dinamiche memoriali e delle relazioni fra sfera personale e collettiva, fra storie e Storia.
Stephen Prina (Galesburg, Illinois, 3 novembre 1954; vive a lavora fra Cambridge, Massachusetts, e Los Angeles) è Professor of Visual and Environmental Studies alla Harward University. Mostre personali gli sono state dedicate da alcune delle più prestigiose istituzioni internazionali, fra cui Museum Kurhaus Kleve (2016); Kunst Halle Sankt Gallen (2015); LACMA Los Angeles County Museum of Art (2013); Wiener Secession, Vienna (2001) e Kölnischer Kunstverein, Colonia (2011 e 2009); Contemporary Art Museum St. Louis (2010); Centro Andaluz de Arte Contemporaeno, Siviglia e Bergen Kunsthall (2009); Staatliche Kunsthalle Baden-Baden (2008); Carpenter Center for the Visual Arts-Harvard University, Cambridge e Cubitt, Londra (2004); The Art Institute, Chicago (2001); Museum für Gegenwart, Berlino, Frankfurter Kunstverein, Francoforte e Art Pace, San Antonio (2000); MAMCO-Musée d’Art Moderne et Contemporain, Ginevra (1998); Museum Boijmans-van Beuningen, Rotterdam (1992); The Power Plant, Toronto (1991); The Renaissance Society, Chicago, Los Angeles Municipal Art Gallery e P.S. 1, New York (1989). Tra le mostre biennali e periodiche ricordiamo: Time Crevasse. Yokohama Triennale e Whitney Biennial, New York (2008); SITE Santa Fe Biennial (2001); Documenta IX, Kassel (1992); 51st Carnegie International, Pittsburgh (1991); APERTO-La Biennale di Venezia (1990). L’artista torna ad esporre a Napoli più di trent’anni dopo la mostra collettiva Rooted Rhetoric. Una Tradizione nell’Arte Americana, presentata a Castel dell’Ovo nel 1986.