Nelle sue opere, che hanno contribuito a definire gli sviluppi della ricerca fotografica a livello internazionale, Mimmo Jodice (Napoli, 1934) esplora il mondo intorno a noi soffermandoci sulle soglie di un tempo indefinito, in cui si intrecciano il passato, il presente e il futuro. Jodice delinea in questo modo una dimensione posta al di là delle coordinate spaziali, o dello scorrere del tempo, sospesa nella dimensione – contemporaneamente fisica e metafisica, empirica e contemplativa – dell’attesa. Un’attesa che è anche matrice di una pratica rigorosamente analogica della fotografia: l’attesa come ricerca paziente dell’illuminazione, spesso mattutina, in grado di rilevare l’essenza del soggetto rappresentato, o l’attesa come l’altrettanto paziente bilanciamento dei bianchi e dei neri in camera oscura. E se, dal 1980, da queste opere scompare la figura umana – fino a quel momento presenza ricorrente – ciò a cui Jodice perviene è l’ineffabile eternità e il nitore assoluto di immagini in bianco e nero restituite dallo sguardo rivelatore di una macchina da presa che si fa “macchina del tempo” (o, meglio, del superamento del tempo), nell’incantata perlustrazione del mondo, da quello più prossimo del ventre di Napoli alle sponde del Mediterraneo, con le loro vestigia di antiche civiltà ormai scomparse, fino agli incerti confini delle megalopoli globalizzate. Ognuno di questi scatti si fa suprema celebrazione dell’umano, colto osservando la realtà in tutte le sue espressioni sensibili e trasfigurata in una realtà fotografica che, prescindendo dalle differenti epoche o contesti, coincide con la costante reinvenzione della fotografia stessa, emancipata da un’interpretazione meramente documentaria, libera di esprimere le sue potenzialità rappresentative e conoscitive.
Questa mostra personale presenta, in un percorso retrospettivo appositamente concepito dall’artista per gli spazi del museo Madre, più di cento opere suddivise in diverse sezioni, fra loro connesse, evocando un tempo circolare, ciclicamente ritornante su se stesso e sui suoi motivi ispiratori. Nella sala Re_PUBBLICA MADRE al piano terra – in prossimità della strada su cui il museo si affaccia – è messa in scena, nel formato di una grande proiezione cinematografica (Teatralità quotidiana a Napoli, 2016), una selezione di immagini dalle serie dedicate, negli anni Sessanta e Settanta, alla città di Napoli: dalla registrazione di forme di aggregazione sociale come i cortei del partito comunista o le feste popolari (oggetto, quest’ultime, anche del volume Chi è devoto?, 1974, con prefazione di Carlo Levi e schede di Roberto De Simone), alle condizioni di vita manicomiali e carcerarie, dalle dinamiche del lavoro in fabbrica, fra cui agli impianti di Bagnoli, e dalla denuncia del lavoro minorile e dei meccanismi di esclusione sociale alla vita di strada nei bassi e nelle periferie napoletane.
Sono gli anni di un’estesa e approfondita interpretazione fotografica (a cui nel 1978 la rivista “Progresso fotografico” dedica un numero monografico, che segue il volume Mezzogiorno. Questione aperta del 1975) che, senza mai ridursi a semplice documentazione, restituisce il senso stesso della propria epoca e della propria città, colti nelle loro irriducibili contraddizioni, con un’attenzione estetica che si traduce in impegno etico e antropologia democratica degli oggetti comuni, delle abitudini quotidiane, dei comportamenti collettivi, dei residui della Storia, delle ideologie e delle fedi. Un’analisi lucida che si erge a inno barocco, epistemologia lirica, chiaroscuro sociale e culturale.
Dopo l’avvio presso la sala Re_PUBBLICA MADRE al piano terra la mostra prosegue al terzo piano. Qui l’inizio e la fine del percorso espositivo sono dedicati alle coeve ricerche sperimentali: incunaboli di una fotografia che si declina come investigazione concettuale delle potenzialità del linguaggio fotografico: in Vera fotografia (1979), l’immagine della mano dell’artista, intenta a scrivere a penna le parole del titolo, le riporta sulla carta fotografica come una vera scritta a penna. Analogamente, la stessa mano non rappresenta ma realizza un taglio (Taglio, 1978) e una bruciatura (Bruciatura, 1978). Sovvertendo l’interpretazione del mezzo fotografico quale mera registrazione del reale, Jodice oppone o sovrappone un elemento tridimensionale alla sua riproduzione fotografica (Ferrania, 1976, Carta d’identità, 1978, Corrispondenza, 1979), così come strappa/accosta, satura/desatura diverse immagini fotografiche realizzando fantasmatici paesaggi che sono il risultato di inediti avvicinamenti spazio-temporali (Frattura, Paesaggio interrotto, Orizzonte, Strappi, Momenti sovrapposti).
Anche i corpi, assottigliando la loro pretesa consistenza e singolarità, mutano grazie a rispecchiamenti (Autoritratto, 1963, Autoritratti con Emilio Notte, 1972, Frammenti con figura, 1968) o giocando con i parametri e i meccanismi stessi di produzione dell’immagine fotografica (Nudi stroboscopici, 1966, o Studio per un nudo, 1967, in cui l’immagine finale viene “completata” dai provini delle altre sue possibili versioni). Fino a giungere all’autoanalisi sia del proprio strumento (Macchina fotografica, 1965) che degli innumerevoli accadimenti trasformativi in fase di stampa (Chimigramma, 1966). Ne emerge tutta la libertà ideativa e compositiva di una pratica fotografica che aveva avuto inizio, del resto, da autodidatta, alla fine degli anni Cinquanta, non con l’uso della macchina da presa o della pellicola ma con l’uso di un ingranditore, e quindi con i concetti extra-fotografici di tempo (di esposizione) e (grado di) luminosità. Una libertà che è anche quella con cui l’identità dell’artista viene riplasmata: esaltando il valore modernista della processualità rispetto al prodotto, ed investigando al contempo, e con straordinario anticipo, le logiche del post-moderno citazionista e appropriazionista, nel 1978, nel progetto Identificazione presso lo Studio Trisorio di Napoli, Jodice ri-fotografa non solo le immagini ma anche le estetiche di altri fotografi quali Richard Avedon, Bill Brandt, Walker Evans, André Kertész, Ralph Gibson, Christian Vogt, esplorando le possibilità di “dilatazione o restringimento, sviluppo o riduzione” fotografici.
Nelle tre ali del terzo piano si succedono poi – in una stringente contiguità e continuità fra i tre differenti tempi del passato (prima sezione), del futuro (seconda sezione) e del presente (terza sezione) – opere da tutte le principali serie di Jodice, a partire dagli anni Ottanta. Nella prima sezione si procede dalle radici culturali del Mediterraneo (ricerca avviata nel 1985) alle epifanie del quotidiano (Eden, serie del 1995 presentata in mostra in una nuova versione inedita). Così come, nella terza sezione, dal confronto fra volti e corpi della Napoli contemporanea e i capolavori delle collezioni del Museo Nazionale di Capodimonte (Transiti, 2008) ci si volge alla relazione fra l’incanto del paesaggio naturale e la fantasmagoria metropolitana delle città contemporanee.
Mentre nella seconda sezione, collocata al centro della mostra, prende corpo la matrice visionaria e meditativa di tutta la ricerca di Jodice, quella creazione di un reale al di là della realtà che, rintracciando un corrispondente emotivo e intellettuale nel Surrealismo novecentesco (richiamato in mostra dall’opera di René Magritte L’amour, 1949), si dischiude compiutamente nel nuovo ciclo Attesa, posto da Jodice quale approdo ideale della mostra ma anche, allo stesso tempo, quale suo fulcro generatore e suo eterno ritorno: nello spazio-tempo dell’attesa di un futuro che mai si compie, Jodice non riconosce più lo spazio o il tempo reali, ma li ricrea, mentre il mondo e la Storia, trasfigurati nel bianco e nero di un sublime mattino da camera oscura, sembrano essere ormai solo il ricordo di quello che erano, sono o saranno: il fantasma fotografico di un eterno istante dal mondo, di un suo giorno senza fine, in cui la maestosità caduca delle rovine di Palmira si trasfonde, per esempio, nella fragile imponenza delle Twin Towers di New York.
Per la prima volta in una sua mostra Jodice lascia infine anche affiorare le fonti di ispirazione della sua ricerca, rappresentate da opere selezionate con l’artista stesso: due capolavori dell’archeologia mediterranea (la scultura in marmo bianco del Compagno di Ulisse e il busto in bronzo di Artemide, provenienti da quell’ipotetico museo del mare nostrum che Jodice evoca nelle sue opere di soggetto archeologico) sembrano presagire, tramite il catalogo di frammenti antiquari delle acqueforti su rame di Giovanni Battista Piranesi, la loro futura sintesi fotografica. La ferocia astratta di Eden oscilla fra la Natura morta con testa di caprone (1645-1650) di Jusepe de Ribera e la quiete delle nature morte di Giorgio Morandi, mentre i paesaggi di Jodice sembrano trovare accogliente assonanza nelle metafisiche piazze d’Italia di Giorgio De Chirico (La grande torre, 1932-38) o nei silenziosi, compendiari, minimali scenari cittadini di Mario Sironi (Paesaggio urbano, 1920).
Dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli (dove, grazie al suo Direttore, il pittore Emilio Notte, Jodice inaugurerà nel 1970 i primi corsi sperimentali e, dal 1975 al 1994, sarà docente del primo corso di fotografia in un’Accademia italiana), l’artista tiene la sua prima mostra personale nel 1967, presso la libreria La Mandragola, a cui segue nel 1970 la mostra Nudi dentro cartelle ermetiche alla galleria Il Diaframma di Milano (con presentazione di Cesare Zavattini), a cui seguirà una seconda mostra nel 1974. Nel 1968 espone a Urbino al Teatro Spento e, attraverso la collaborazione anche con i galleristi Lucio Amelio e Lia Rumma, inizia quel rapporto con l’ambiente artistico napoletano che sarà poi l’oggetto del volume Mimmo Jodice. Avanguardie a Napoli dalla contestazione al riflusso (1996). Nel 1971 conosce Cesare De Seta, con il quale condividerà uno studio a Napoli fino al 1988.
A Jodice – autore di numerosi volumi, connessi anche a mostre monografiche, tra i quali Vedute di Napoli, 1980, con cui si chiude il “periodo sociale” e si avvia una ricerca sulla spazialità caratterizzata dallo scavo di memorie collettive e archetipe e da vuoti metafisici – sono stati conferiti diversi riconoscimenti quali nel 2003 il Premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei, nel 2006 la Laurea Honoris Causa dall’Università degli Studi Federico II di Napoli, nel 2011 l’onorificenza di Chevalier de l’Ordre des Art et des Lettres e, nel 2013 e 2016, la Laurea Honoris Causa dell’Università di Architettura di Mendrisio e dell’Accademia di Belle Arti di Macerata. All’artista hanno dedicato mostre personali alcuni dei più importanti musei del mondo, e sue opere sono presenti nelle collezioni di musei quali University Art Museum, Albuquerque; Museum Photographic Archive, Barcellona; Institute of Modern Art, Detroit; Musée Cantini, Marsiglia; Museo della Fotografia Italiana, Cinisello Balsamo-Milano; Galleria Civica d’Arte Moderna, Modena; Canadian Center of Architecture e Museo McCord, Montréal; Museum of Photography, Mosca; Aperture Foundation, New York; Metropolitana di Napoli, Museo MADRE e Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli; Bibliothèque Nationale-Cabinet des Estampes, MEP-Maison Européenne de la Photographie e FNAC-Fond National d’Art Contemporain, Parigi; Museum of Art, Filadelfia; Centro Studio e Archivio della Comunicazione, Parma; Istituto Nazionale per la Grafica, Roma; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea e Castello di Rivoli-Museo d’arte contemporanea, Torino; MART-Museo Arte Moderna e Contemporanea, Trento e Rovereto; Museum of Modern Art, San Francisco; Museum of Art, Tel Aviv; Library of Congress, Washington.