Four Rooms è una mostra di gruppo cadenzata in quattro tempi diversi, che dà la possibilità a cinque giovani artisti napoletani – Luca Mattei e Carlotta Sennato, Giulio Delvè, Corrado Folinea, Celesta Bufano – di presentare propri lavori all’interno di un contesto pubblico e museale.
Four Rooms è, dunque, anche uno studio sul territorio, che intende proporre un confronto tra linguaggi complementari: quello dell’immagine e quello della parola scritta. Le quattro mostre sono infatti affiancate dai testi di altrettanti studenti della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Napoli “l’Orientale”, scelti dalla professoressa Rossella Bonito Oliva per cimentarsi con la ricerca di artisti loro coetanei.
Room 2
Giulio Delvè, Untitled (Tumbleweed series), 2007
testo di Flora Visca: Nessuna ombra oltre la mia
Il testo di Flora Visca, che accompagna la mostra, analizza quello che potrebbe definirsi lo stato mentale dell’uomo dopo l’avvento della tecnologia imperante. Un’analisi in prima persona delle implicazioni etiche prodotte dalla “macchina” e dal suo iniquo utilizzo.
Tumbleweed è l’eco di una voce che sento dentro me, un grido silenzioso, emesso non solo dagli uomini, ma anche da altri esseri viventi, da elementi inanimati, dalla natura stessa dell’umanità.
Dal fondo del terzo millennio arriva l’assordante frastuono di un motore, un rumore forte che mi ottunde la mente…la “macchina” prende l’abbrivio per partire, ma viene quasi immediatamente arrestata da un ostacolo che si trova dietro la macchina stessa e che, in virtù di questa posizione, quasi si rende testimone di un’impossibilità che è all’origine del complesso meccanico.
La macchina si “ostina” nella reiterazione della stessa operazione.
Mi guardo intorno, i miei occhi cercano di comprendere chi possa aver dato l’avvio a quella macchina, ma non vedo altre ombre oltre la mia. L’idea che non ci sia nessuno a manovrare quel dispositivo mi incute una certa angoscia perché, improvvisamente, sento che quella macchina, nella quale dovrei ravvisare una traccia di umanità, in realtà, è completamente altro da me.
Ho l’impulso di fuggire, allontanarmi, liberarmi… ma la sua patologia investe, ormai, anche me.
Il battito del mio cuore comincia ad accelerarsi, alimentato dalla paura, accompagnato dall’idea che davanti a me ci sia qualcosa che non riesce a sentirlo, questo battito, che non sa che io esisto, non sa neanche che essa stessa esiste.
Mi viene subito in mente che una macchina non è auto-cosciente, di conseguenza non può auto-governarsi; non è in grado di pensare, di sentire ed elaborare le mie stesse emozioni. È un sentimento ambivalente quello che provo, l’istinto è quello di fuggire, la necessità è, invece, restare.
In ogni caso sento di non potermi sottrarre alla presa del grande automa bendato perché esso è presente, con differenti sembianze in ogni aspetto della vita del mondo: è sui campi di guerra, nelle strade della città, negli spazi lavorativi, nella mia casa, sulla mia scrivania, nelle tasche dei miei vestiti, è nello schermo della tv, tra i giochi dei bambini. È presente sul corpo e nel corpo; la sua presenza invasiva e totalizzante opera uno svilimento della vita stessa: entra in essa e la trattiene, la imbriglia, la paralizza, la modifica, la costringe a mutare le proprie condizioni e abitudini.
Ma la vita non è soltanto schiacciata dalla macchina; esiste, ad opera dell’uomo, un particolare tipo di macchina in grado, addirittura, di distruggere la vita: è la macchina da guerra, la più mostruosa delle invenzioni umane, simbolo di un’ambizione spregevole, ancora viva negli animi degli uomini contemporanei.
Quand’ero bambina pensavo che la guerra fosse una cosa lontana da me sia nel tempo sia nello spazio. Avevo l’ingenua convinzione che essa fosse un argomento così passato da studiarlo nei libri per questa ragione. Crescere ha significato anche apprendere l’amara verità che, in realtà, la guerra è presente, anche quando è assente; non importa dove si svolga una guerra, quanto lontana essa si da me, perché io la sento, sento la sua ingiustizia.
La guerra non la capisco, anche se me la spiegano, non la capisco.
Improvvisamente mi viene voglia di vestire nuovamente i miei panni di bambina per dar vita ad un sogno, magari attraverso uno di quegli innumerevoli disegni che facevo da piccola. Disegnerei un’enorme macchina da guerra, avvolta in tanti lacci e li terrei stretti fino a svegliarmi.