Il museo Madre presenta il primo dei progetti che, nel corso del 2015, saranno appositamente commissionati all’artista francese Daniel Buren (Boulogne-Villancourt, 1938) per celebrare la relazione fra il museo e il suo pubblico, tra l’istituzione e la sua comunità, in occasione dei primi dieci anni di attività del Madre. Uno dei massimi artisti contemporanei, Daniel Buren è autore di un’opera in cui la valenza visiva è sempre associata a quella teorica e il cui elemento emblematico potrebbe essere riassunto nella sua comprensione e utilizzo della nozione di in situ: espressione con cui l’artista stesso indica la stringente interrelazione fra i suoi interventi e i luoghi espositivi (ma anche urbani) in cui essi sono realizzati. Il progetto di Daniel Buren per il Madre è strutturato in più capitoli, fra loro connessi: da aprile ad agosto 2015 l’artista interverrà nella sala Re_PUBBLICA Madre con la grande installazione in situ intitolata Come un gioco da bambini (2014-2015, in collaborazione con Musée d’Art Moderne et Contemporain, Strasburgo).
Con questo primo intervento Buren accoglie i visitatori nella grande sala al piano terra del museo, trasformata in uno spazio ludico, un vero e proprio gioco di costruzioni a grandezza reale, o un kindergarten (“giardino d’infanzia”) a dimensione ambientale, ottenuto grazie all’assemblaggio di un centinaio di moduli di forme geometriche e colori diversi ispirati ai solidi del pedagogo tedesco Friedrich Wilhelm August Fröbel (sfere, cubi, cilindri in legno che, esaltando le potenzialità conoscitive del gioco rispetto al linguaggio, inducono il bambino alla scoperta partecipata e comunitaria della realtà e delle proprie capacità espressive stimolando facoltà quali percezione, esercizio tattile, costruzione e decostruzione).
Il visitatore, inoltrandosi nell’installazione, si ritrova di fronte a una realtà in potenza, che gli permette di ricostruire il mondo intorno a sé con un rinnovato stupore e un’infantile meraviglia. L’opera – risultato della collaborazione fra l’artista e l’architetto Patrick Bouchain – si propone in questo modo come un sottile dialogo interiore con l’architettura, che diventa quasi viva, performativa: i visitatori hanno la possibilità di passeggiare all’interno di una città fatta di cerchi ipnotici (su cui appaiono le righe di 8,7 cm che sono il segno ricorrente e distintivo delle opere di Buren), archi colorati, torri cilindriche, basamenti quadrati, timpani triangolari, collocati simmetricamente fra loro, quasi fossero parte dell’architettura stessa del museo, dotandola infine di una sua ipotetica ed alternativa potenzialità ricostruttiva. Quello che appare di fronte all’osservatore è infatti un paesaggio composito, la riproduzione di una vera e propria città in miniatura, che mette in relazione la città reale (che viene come incorporata, nelle sue forme archetipiche, all’interno del museo) con la città immaginifica che si innalza di fronte ai nostri occhi: quasi una città metafisica che si articola gradualmente come una passeggiata nel colore che procede dal bianco puro iniziale a un caleidoscopio di colori, e che si può attraversare con l’occhio seguendo una ritmica, quanto vertiginosa, prospettiva.
Iscrivere le opere nel contesto in cui sono esposte, relazionarsi alla missione sociale che motiva l’istituzione museale, contrapporre una modernità che non ricerca il contrasto con la sfera urbana o la dimensione storica, ma ne esalta la matrice: questo il significato dell’espressione in situ da cui origina quest’opera, come tutte le opere dell’artista. Nel corso degli anni i materiali utilizzati da Buren sono stati i più diversi, così come il perimetro e il contesto delle opere stesse, spaziando dai musei alle gallerie, dai monumenti ai territori urbani, dai siti naturali al paesaggio, ma mantenendo la correlazione armonica fra tutti questi elementi quale costante asse del loro pensiero plastico e della loro dimensione teorica, trasformata in rappresentazione visiva. L’esplorazione della dialettica tra i differenti contesti e l’opera d’arte, tra le architetture preesistenti e le nuove produzioni, tra il pubblico e l’artista, si configura quindi per Buren, in questo caso, come un equilibrato e complessivo jeu d’enfant (un “gioco da bambini”), da qui deriva il titolo dell’opera.
Formatosi all’Ecole des Métiers d’Art e all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, Buren ha basato la sua ricerca e la sua produzione, a partire dalla metà degli anni Sessanta, su una stoffa da tende a righe, alternativamente bianche e colorate, dallo spessore standard di 8,7 cm: scelta di rigore e criterio volto all’essenzialità che esplora e mette in questione i limiti della pittura. Più recentemente, a partire dagli anni Ottanta, Buren ha progressivamente accostato – con eccezionale continuità e coerenza nell’approccio plurale al contesto di presentazione in situ dell’opera – la realizzazione di opere di formato museale ad installazioni architettoniche in spazi pubblici. Uno dei più influenti esponenti della riflessione storica sulle istituzioni, sviluppatasi fra gli anni Sessanta e Settanta e denominata institutional critique, Buren è profondamente legato alla città di Napoli, dove è intervenuto più volte (tra l’altro con una mostra personale al Museo di Capodimonte, nel 1989). Dopo la sua partecipazione ad alcune delle più importanti mostre degli ultimi decenni, da When Attitudes Become Form (1969) a varie edizioni di Documenta (1972-1982), nel 1986 l’artista ha partecipato alla 42a Biennale di Venezia aggiudicandosi il Leone d’Oro per il miglior Padiglione nazionale. Mostre personali gli sono state dedicate dai più importanti musei del mondo, mentre fra i molti interventi in situ è possibile ricordare Les Deux Plateaux nella corte d’onore del Palais Royal (1986) e Excentrique(s), realizzato sempre a Parigi, al Grand Palais, in occasione di Monumenta (2012).