Jimmie Durham: humanity is not a completed project | Sala 4

Fin dai suoi esordi, Durham ha elaborato un’analisi precisa dei processi attraverso i quali la reificazione dell’identità serve gli interessi e le cooptazioni del capitalismo. Le installazioni, On loan from the Museum of the American Indian (1985) e Museum of European normality (2008, con Maria Thereza Alves), sono esempi chiave della mobilitazione critica di Durham dei linguaggi dell’etnografia e della museologia come strategia per interrompere ironicamente la loro applicazione di certezze riduttive e procedure normalizzanti. Questa critica si era già cristallizzata e definita durante il suo periodo di studio all’École des Beaux-Arts di Ginevra, a partire dal 1969. In quell’occasione ha confrontato le sue precedenti osservazioni sulle narrazioni dell’identità nazionale e “minoritaria”, dell’indigeneità e dell’autenticità negli Stati Uniti con uno studio sulla “Swissness” nel contesto della moderna alienazione da un patrimonio culturale di lunga data, discutendo in particolare gli effetti dell’industria turistica sull’arte “popolare” svizzera della fabbricazione delle maschere. La mostra presenta collage fotografici inediti, disegni e testi di un’opera presentata dall’artista per la sua laurea nel 1974, intitolata God’s own drunks. Questo progetto artistico gli ha anche permesso di formulare chiaramente come le culture europee non siano isolate dai processi culturalmente distruttivi e alienanti che accompagnano lo sviluppo del capitalismo. Le fotografie scattate da Durham durante la sua ricerca in Svizzera sono state successivamente utilizzate nell’opera Maquette for a Museum of Switzerland (2012), che affronta la storia della cultura svizzera attraverso i temi della finanza, dell’orologeria e delle maschere tradizionali.

 

Nella sua installazione del 1985, On loan from the Museum of the American Indian, presentata per la prima volta nella mostra collettiva “Dimensions of Dissent” alla Kenkeleba Gallery nel 1985, e qui parzialmente ricostruita, Durham realizza un allestimento museale con oggetti trovati etichettati come “sociofacts” (sociofatti) e “sciencefacts” (fatti scientifici) che commentano in modo umoristico i quadri antropologici riduttivi imposti alle società “indiane”. Quest’opera è stata particolarmente ispirata dalla proposta della Smithsonian Institution di un nuovo “National Museum of the American Indian” per il National Mall di Washington. Durham rimase infatti colpito dall’uso del singolare nel titolo – “l’Indiano d’America” – e ha parodiato se stesso in quanto esemplare di tale soggettività indiana singolarizzata, includendo nella sua opera effetti personali come le fotografie dei suoi familiari in The Indian’s family (frontal view). L’opera Pocahontas’s Underwear, un costume decorato con piume tinte e perline, sottolinea la fantasia feticista e la sessualizzazione della figura storica di Pocahontas, una donna Powhatan soggetta a un’ampia mitizzazione culturale, in particolare da parte della Disney, e alla quale è stato falsamente attribuito il ruolo di aver facilitato il primo insediamento inglese nel Nord America. Altri elementi enigmatici come Whale Teeth Stick fungevano da “falsi manufatti”, evocando rituali di dubbia provenienza. L’esposizione comprendeva anche documenti intitolati “Current Trends in Indian Land Ownership” (Tendenze attuali nella proprietà delle terre indiane) che illustravano la crescente espropriazione delle terre indigene negli Stati Uniti nel corso della storia. Durham rende visibile come i musei rafforzino le narrazioni coloniali che rappresentano la terra come “terra nullius” e le popolazioni indigene in quanto popoli in via di estinzione. Questa linea di ricerca entra in risonanza con l’opera Not Lothar Baumgarten’s Cherokee (1990) con la quale Durham critica le pratiche di usurpazione autoritaria dei territori della conoscenza da parte di alcuni artisti maschi bianchi che creano antropologie soggettive di altre culture, tra cui gli artisti concettuali tedeschi Lothar Baumgarten, che secondo Durham “si è fatto una reputazione usando gli ‘indiani’ come soggetto”, e Joseph Beuys.

 

Un allestimento museografico più recente, intitolato Museum of European normality, concepito da Durham in collaborazione con Maria Thereza Alves nel 2008, presenta dati sociologici e morfologici, modelli migratori e materiali di vita quotidiana costitutivi dell’identità europea, sottoponendo lo sguardo europeo alle sue stesse modalità di esposizione “scientifica”. L’installazione comprende anche una serie di autoritratti umoristici realizzati da Durham in diverse località europee, in cui i riferimenti all’Europa sono visibilmente associati a una serie di prodotti e aziende. Anti-guest book elenca i nomi di oltre cinquemila rifugiati che hanno perso la vita attraversando il Mediterraneo nel tentativo di entrare nella “Fortezza Europa” tra il 1993 e il 2008. In riferimento alle controversie sulla proposta di restituzione di una testa Maori tatuata del Museo di Storia Naturale di Rouen (Francia), Fair Trade head di Alves invita gli europei a donare fotografie della propria testa come gesto simbolico che consenta uno scambio equo tra i cittadini europei e i discendenti Maori a cui è stata negata la restituzione di parti del corpo dei loro antenati. Nel cortometraggio Male display among European populations, una giovane antropologa indigena presenta la sua ricerca sull'”abitudine di alcuni maschi europei di toccarsi i testicoli in pubblico” in un ambiente descritto come un “tipico villaggio europeo”. Spostando il presunto sguardo europeo bianco della museologia per posizionare gli europei come oggetti di osservazione scientifica, l’installazione invita i visitatori a riflettere su ciò che informa il loro stesso sguardo. A Scottish conspiracy (2010) complica ulteriormente le nozioni di “autenticità” culturale raccontando le storie intrecciate di importanti capi Cherokee che discendono da coloni scozzesi del 1600 e di donne Cherokee. Famosi capi di origine mista come John Ross (1790-1866), figlio di madre Cherokee e padre scozzese, combatterono contro gli Stati Uniti durante le guerre di frontiera americane. Tuttavia, lui e altri Cherokee scozzesi contribuirono a rimodellare i sistemi sociali e di governo in accordo con le leggi statunitensi sulla proprietà terriera, acquisendo spesso grandi piantagioni e anche schiavi africani, perpetuando così un processo di “colonizzazione interna”, come sottolinea Durham.

Jimmie Durham: humanity is not a completed project, veduta della mostra al Madre, 2023. Foto di Amedeo Benestante