Cera, disegno, manualità, intelligenza compositiva, caos e necessità, lentezza e riflessione, queste le caratteristiche che contraddistinguono il lavoro di Domenico Bianchi.
Su grandi superfici, l’artista, con pazienza e tensione, attraverso lunghi tempi d’esecuzione, sperimenta una particolare tecnica di pittura su cera – ripresa dall’encausto di età romana e usata nella seconda metà degli anni Cinquanta anche da Jasper Johns nelle serie Bandiera e Bersaglio – realizzando dipinti simili a intarsi rinascimentali. Bianchi non adopera il pennello né gli strumenti tradizionali, ricorre a tecniche meno convenzionali, manipola la cera sulla tela o sulla carta come fosse colore. Incastonando uno o più lavori in strutture modulari, Bianchi sviluppa una riflessione sulla pittura in funzione architettonica che diventerà un’altra caratteristica peculiare della sua pratica. Lentezza, ragioni del fare, i colori (principalmente il giallo, il rosso e le loro combinazioni), i segni appena accennati che alludono a immagini biomorfe, insieme alla meticolosità ossessiva di levigare fino all’inverosimile la superficie, donano alla sua pittura un’immagine rarefatta, in cui perfino le emozioni sembrano controllate. Senza titolo tutti i suoi lavori, quasi a sottolineare come anche un nome possa turbare i silenzi, la pause e le riflessioni di un lavoro che nel tempo è diventato sempre più strutturato.
Geometria ed esercizio riduttivo diventano, nella poetica dell’artista, i passaggi fondamentali e gli strumenti attraverso i quali Bianchi lavora alla sua concezione dell’arte come ragionamento sempre in bilico fra idea e fisicità, immagine e tempo. La sua pittura è ridotta a pochi elementi, quasi all’essenziale, ricerca costantemente un desiderio di semplicità e riduzione. L’eleganza del disegno che contraddistingue la maggior parte dei suoi lavori e che compare anche nell’opera site-specific concepita nel 2005 per il Madre, il disegno inserito nello spazio, diventa il soggetto indiscusso dei suoi lavori, costituendone il nucleo generatore di forma, movimento e luce. L’incontro, nella seconda metà degli anni Novanta, con alcuni esponenti dell’Arte Povera, in particolare Jannis Kounellis e Mario e Marisa Merz, porta Bianchi ad approfondire la ricerca sulla forza espressiva dei materiali grezzi, aggiungendo alla cera foglie di platino, argento e palladio. La trasparenza luminosa diviene elemento primario della poetica dell’artista, insieme a una dimensione spaziale ricercata nella cera incisa, intagliata o graffiata con tratti assolutamente minimali.
La ricerca dell’armonia degli elementi è perseguita da Bianchi attraverso l’identificazione di una dimensione spaziale affiorante naturalmente dall’accostamento di linee, forme e volumi che emergono dai materiali, vera origine espressiva del lavoro dell’artista, dalla loro manipolazione, dall’esaltazione delle loro caratteristiche intrinseche, dagli accostamenti eseguiti con una ricerca raffinata e rarefatta. Le due monumentali panchine marmoree, concepite originariamente per il chiostro seicentesco della chiesa di DonnaRegina Vecchia per armonizzarsi con le sue sontuose linee barocche, sono adesso riallestite nell’atrio settecentesco del Madre, di cui impreziosiscono le linee neoclassiche essenziali e allo stesso tempo suggeriscono una nuova definizione degli spazi, un invito alla sosta e alla riflessione. Oltre i riferimenti immediati alla tradizione della storia dell’arte, questi due lavori sono emblematici del modus operandi dell’artista, in quanto affrontano problematiche inerenti la vocazione spaziale e strutturale dell’opera e la sua relazione con l’ambiente circostante, per abitarlo in senso evocativo e sensibile.
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