Indagare il sottosuolo. Atlante delle storie omesse, progetto di Lara Favaretto, presentato dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è il vincitore della seconda edizione del bando Italian Council 2017, concorso ideato dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane (DGAAP) del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo.
Lara Favaretto, connettendo Storia e storie e operando fra differenti discipline, crea la trama di un ricco tessuto in cui spazi e tempi diversi si intrecciano in un continuum denso di potenzialità, di scoperta e di racconto, in grado di ridefinire criticamente il concetto e l’esperienza di opera d’arte, mostra, museo.
IL PROGETTO
Il progetto è basato su un’indagine conoscitiva del territorio della città antica e contemporanea di Pompei, alla ricerca di narrazioni e storie sconosciute, omesse o dimenticate, intrecciate con la memoria ma anche con possibili racconti, ipotesi e interpretazioni. Queste storie considerate minori, ma che fiancheggiano la Storia, sono impresse e sedimentate nel sottosuolo e saranno riportate alla luce e mappate attraverso una serie di carotaggi, per farle emergere dalla terra che le ha sepolte. Una pubblicazione digitale ricostruirà la complessa articolazione di queste storie, mentre i carotaggi saranno prima esposti nel Parco Archeologico di Pompei e poi archiviati nella zona archeologica in un contenitore che si configura come una Time Capsule, una “macchina del tempo” che, sigillata, sarà sotterrata nel Parco Archeologico di Pompei. Su di essa una lapide in pietra lavica del Vesuvio, della stessa dimensione di una faccia della macchina del tempo sotterrata, ne rappresenterà l’ombra e porterà incise la data di sotterramento e quella di riesumazione, prevista dopo cento anni.
L’ANTEPRIMA A MANIFESTA 12
Manifesta 12 diventa l’occasione per mostrare, per soli otto giorni, la metodologia di ricerca che guida il progetto, condividendo con il pubblico il processo di un operare che indaga la storia di un territorio attraverso le vicende meno note che vi si sono svolte. In questo caso, una vicenda emersa durante le ricerche condotte a Pompei sarà messa a confronto con l’attività e la storia del Monte dei Pegni di Santa Rosalia di Palermo in Palazzo Branciforte, che ospita l’esposizione.
Entrambe le storie ruotano intorno a oggetti, alla loro presenza e assenza: i reperti del Parco Archeologico di Pompei, trafugati e restituiti in tempi recenti perché ritenuti portatori di malocchio, di malasorte, come testimoniano le lettere che accompagnano la loro restituzione, e gli oggetti dati in pegno al Monte di Pietà, che andarono distrutti a causa dell’incendio accidentale scoppiato durante i moti del 1848. Come i reperti antichi, estrapolati dal loro contesto originario, sono dei frammenti, tessere di un mosaico impossibile da ricostruire con certezza e solo ipotetico, così gli effetti personali depositati al Monte e andati perduti possono essere soltanto immaginati attraverso le descrizioni riportate nei registri.
Gli ambienti di Palazzo Branciforte, intrisi di narrazioni e di accadimenti in cui la storia ufficiale e quella alternativa si intersecano restituendo una tacita ma allusiva testimonianza degli eventi palermitani, divengono custodi dei reperti, frammenti provenienti da un altro contesto, da un passato antico, carichi di suggestioni e storie, idealmente e temporaneamente dati in pegno attraverso il loro trasferimento al Monte di Pietà della Città di Palermo. Questi oggetti sono corredati dalle lettere, testimonianze visive di storie laterali e dimesse, ed esposti insieme a una selezione di volumi storici relativi all’attività del Monte di Pietà palermitano, datati tra il 1560 e il 1950.
Rendendo così visibile il processo alla base del progetto complessivo dell’Atlante, si tenta di far emergere la potenzialità insita nell’attività di una memoria che si costituisce per sottrazione. L’identità stessa e le pratiche del Monte di Palermo, in particolare la trama di storie dismesse e accumulate all’interno delle scaffalature del Monte di Santa Rosalia, la cui documentazione è andata perduta nell’incendio, emergono attraverso la fruizione di un ambiente orfano dei suoi pegni, come dei volumi che ne documentavano scrupolosamente l’attività e ne ricostruivano la storia ufficiale. L’associazione tra gli storici tomi e la selezione di lettere e oggetti provenienti da Pompei è guidata dall’indagine dei passi estratti da ciascun testo, connesso ad altrettante testimonianze di accadimenti, sintomo di una temporalità annullata che si tenta di recuperare.
Il vuoto lasciato dall’oggetto sottratto, che non potrà mai tornare al luogo di appartenenza, come quello del pegno che non verrà mai più restituito al proprietario o al luogo che ne era ormai depositario, costituiscono la storia primaria: l’avvio all’esplorazione di narrazioni alternative che funzionano da macchina del tempo, nel tentativo di ricostruire una piccola parte omessa della memoria storica di Palermo, esattamente come la Time Capsule, che chiude il progetto pompeiano, tenta di ricostruire quella della Pompei romana e contemporanea.
IL MONTE DI SANTA ROSALIA
Nel 1801, gli spazi della sede del Monte di Pietà di Palermo nel “piano della Pannaria” risultano insufficienti alle esigenze funzionali del “Monte della Pietà per la Pignorazione”, così il 23 novembre dello stesso anno il Governatore del Monte chiede di poter prendere a censo il palazzo del principe di Butera a Santa Cita per destinarlo a seconda filiale del Monte, dove il 21 dicembre si insedia l’istituto.
Tra il dicembre del 1801 e l’aprile del 1803 vengono completate le opere di ristrutturazione per adattare il palazzo a sede del Monte dei Pegni, chiamato Monte Santa di Rosalia, in onore della patrona della città. Il Monte di Santa Rosalia diviene una sorta di “pronto soccorso” economico della povera gente: tra il 1822 e il 1841 vengono eseguite circa 4 milioni di operazioni di pegnorazione di biancheria, seteria e laneria.
Il 17 gennaio del 1848, in occasione dei moti rivoluzionari, l’edificio viene colpito da una bomba incendiaria che provoca il crollo del tetto e delle volte sottostanti causando gravi lesioni nella copertura della grande scuderia. Con i lavori di consolidamento, le colonne della scuderia sono inglobate all’interno dei muri e una volta ricostruita la copertura dell’edificio, si pensa di non ripristinare il solaio tra il primo e il secondo piano ma di realizzare una grande scaffalatura in legno con i relativi ballatoi di servizio, struttura che ancora oggi è possibile ammirare.
Nel 1929 avviene la fusione fra il Monte di Pietà e la Cassa Centrale di Risparmio V.E. per le province siciliane, istituto che continua per oltre 50 anni a mantenere l’attività di pignorazione degli oggetti non preziosi. Nell’aprile del 1943 i bombardamenti della seconda guerra mondiale colpiscono il palazzo provocando il crollo della parte angolare compresa tra le vie Lampedusa e Monte Santa Rosalia, distruggendo il loggiato superiore meridionale del cortile maggiore e parte dell’edificio. Nel 1958 la Cassa di Risparmio incorpora la Fondazione Culturale “Lauro Chiazzese” dal nome del Presidente prematuramente scomparso e Palazzo Branciforte ne diventa la sede.