Una serata all’insegna della musica e dell’arte contemporanea, nell’ambito di una collaborazione storica, quella fra Madre – Museo d’arte contemporanea Donnaregina e il Teatro San Carlo di Napoli, che propongono un doppio concerto di musica contemporanea, eseguito dall’orchestra e dal coro del Teatro San Carlo, presso il cortile d’onore del museo.
La collaborazione fra i due enti rientra fra i progetti volti a stabilire, attraverso il dialogo fra musica e arte contemporanea, una sinergia fra le diverse istituzioni operanti in questi ambiti sul territorio della Regione Campania: il Madre, il Teatro San Carlo ed il Ravello Festival. Il programma della serata prevede l’esecuzione di brani composti da due fra i più importanti autori della ricerca musicale contemporanea: Sieben Worte di Sofia Gubajdulina (Čistopoľ, Russia, 1931) e Adam’s Lament di Arvo Pärt (Paide, Estonia, 1935). Le due composizioni proposte manifestano una profonda ispirazione spirituale, in grado di risuonare nell’ascolto intimo di ogni singolo spettatore. Due talenti internazionali insigniti, entrambi, dalla Japan Art Association con il prestigioso Premio Imperiale per la categoria Musica: nel 1998 Sofia Gubajdulina e quest’anno Alvo Part.
Scrive a questo proposito Maurizio Squillante, curatore della serata, introducendo sia i due compositori che i due brani che verranno eseguiti presso il museo Madre, dall’orchestra e dal coro del Teatro San Carlo:
“Corre un filo conduttore unificante nell’arte di Arvo Pärt e Sofia Gubajdulina, un’idea che ne accomuna, nella diversità, la ricerca compositiva, la tensione espressiva, ne alimenta il linguaggio musicale, questo filo è rappresentato dal loro personale rapporto con l’Essere trascendente. Non è forse un caso che, in un’epoca che nega con assoluto rigore ogni possibilità di esistenza al di fuori della contingenza materiale, siano due compositori di religione cristiana ortodossa a richiamare, con libertà e forza, l’uomo contemporaneo alla memoria di se stesso, ad evocare il risorgere di un Sé purificato da sovrastrutture sociali e culturali, nel tentativo di risvegliare l’Io religioso sopito in ciascuno. Infatti, ascoltando la musica o ripercorrendo la vita dei due compositori, i settant’anni durante i quali sono stati costretti ad affrontare una condizione di ateismo imposto, sembrano aver generato una reazione di straordinaria efficacia umana e spirituale. La musica dovrebbe non poter prescindere dalla relazione con la spiritualità, ma non sempre è stato così nel corso degli ultimi cinquant’anni di storia musicale colta dell’Occidente euroamericano: come in un rimando di specchi, anche il nostro emisfero geopolitico ha subito la progressiva semplificazione e riduzione del rapporto con l’immateriale. Cosicché, non molti sono i compositori “occidentali” le cui opere fanno palese riferimento al metafisico. Nel selezionarne alcuni, si potrebbe optare per Giacinto Scelsi, a suo modo John Cage, ed i periodi tardi di Luigi Nono e Karlheinz Stockhausen. Autori questi, la cui spiritualità affonda le proprie radici in una mistica sincretica di stampo post-moderno, che nelle loro opere si è spesso coagulata in linguaggi musicali ispirati al trascendente. Un risultato questo, scaturito da un processo compositivo volutamente tessuto mediante materiali simbolici e filosofici non razionali.
Lo stesso processo è stato intrapreso, seguendo modalità differenti, anche da Arvo Pärt e Sofia Gubajdulina, i quali hanno potuto fare appello, per la costruzione del proprio codice estetico, alle ricchissime fonti teologiche e sapienziali cristiano-ortodosse, che si poggiano sull’ipotesi dell’irraggiungibilità dell’essenza di Dio, ma anche sul concetto di “divinizzazione” come vero fine dell’uomo, entrambi aspetti presenti nel pensiero musicale dei due compositori. Idee religiose che si contrappongono alla natura schiettamente razionalista del pensiero cristiano-occidentale, come espressa nella Summa Theologiae di San Tommaso D’Aquino. Sia nella purezza icastica della musica di Pärt, che nella complessità cromatica di stampo drammaturgico della Gubajdulina, possiamo rintracciare, fintanto nei titoli delle opere, i segni manifesti di un linguaggio musicale che diventa anche assunzione di un percorso spirituale.
Nel Sieben Worte della Gubajdulina (prima parte del programma della serata al MADRE), l’architettura formale costruita sulla serie di Fibonacci e la proporzione aurea, i glissati e i microintervalli pensati come metafora della relazione con il metafisico, l’impiego di simbologie sonore per la distribuzione drammaturgica dell’organico strumentale – dove violoncello, bayan e orchestra incarnano Cristo, Dio Padre e lo Spirito Santo – la dicotomica alternanza fra spazio cromatico e spazio diatonico intesa come contrapposizione fra bene e male, tutto sembra concorrere ad una vera e propria incitazione musicale alla trascendenza ed alla purificazione. Un’impalcatura compositiva che sembra volersi richiamare a quel paradigma mistico, tipicamente cristiano-ortodosso, supportato dal detto di S. Atanasio: Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio. Il progetto della Gubajdulina vuole essere quello di riannodare il filo spezzato del legame fra l’uomo e il suo creatore, e nella sua opera ciò si concretizza, per lei stessa, attraverso il processo di composizione e, per l’ascoltatore, nell’ambito della catarsi dell’ascolto – una “tragedia sonora” che induce colui che la vive ad essere immerso in un contesto non più solo artistico ma religioso. E questa religiosità, in Sieben Worte, sfocia nel ritualismo, nella descrizione quasi teatrale dell’azione svoltasi sul Golgota, e dalla quale sono scaturite le ultime parole del Dio fattosi Uomo per amore dell’uomo. Si è catapultati nell’ambito di una drammaturgia sacra, dove la commistione fra le due nature del Cristo agonizzante sulla croce si esplicita in un alternanza di momenti di cupo sgomento ed attimi di gioioso abbandono, dove il dialogo fra il Padre/bayan ed il Figlio/violoncello diventano specchio del travagliato rapporto che accompagna qualsiasi uomo sulla strada dell’elevazione da sé. Una strada non solo morale, ma inevitabilmente, a tratti, mistica, una strada dolorosa, fatta di fallimenti ed angoscia, senso di abbandono e percezione del soprannaturale, rivolta e pentimento, ma anche e soprattutto una strada di liberazione e di riconoscimento del vero destino dell’individuo che la percorre, una strada di riconciliazione, speranza, amore.
Nello stesso contesto ideale possiamo collocare l’Adam’s Lament di Pärt (seconda parte del programma della serata al MADRE), dove la scelta dei materiali sonori conduce l’autore lungo un percorso musicale che accosta la struttura compositiva del pezzo, di volta in volta, al canto ecclesiastico slavo, allo Stabat Mater di Pergolesi, a sprazzi della sua tecnica dei tintinnabuli, perfino ad una dimensione lirica di stampo mozartiano. Basato su un poema religioso di S. Silouan l’Atonita (Šovskoe, 1866), il lavoro per coro ed orchestra d’archi del compositore lituano esprime tutta la purezza, la semplice complessità della sua arte, nel riuscito tentativo di evocare una particolare condizione umana, ovvero quella generata dallo sgomento per la propria natura divenuta mortale, ed apparentemente priva senso, come conseguenza del peccato originale. E’ nella forza delle parole, nell’alternanza dei contrasti dinamici generati da voci ed archi, nelle sequenze plagali della figura d’apertura, nella ritualità meditativa espressa dalla funzione corale, nell’inseguirsi di passaggi consonanti e dissonanze fugaci, che troviamo i punti cardine di una impalcatura drammaturgica che conduce lʼascoltatore attraverso gli slanci di fede e gli abissi di desolazione di un Adamo che percepisce, nonostante l’amore che Dio gli elargisce, l’abisso della colpa e delle conseguenze che si riverseranno sull’uomo. Una sofferenza ed una speranza che caratterizzano ciascun componente di questa umanità spiritualmente erratica, espresse da un pianto che vuole essere quello di ognuno, causato da un’angoscia che per antitesi stimola un ansia di redenzione corroborata dalla certezza dell’amore e dal sogno di salvezza. Una condizione, quella di Adamo, che avvicina gli uomini fra loro, tutti gli uomini, un presupposto che ci affratella, ci unifica come un solo corpo, e ci richiama al recupero della comune origine attraverso l’umiltà e l’amore reciproci, oltre le diversità.
Molto si è scritto su questi due autori e sulla loro eccezionalità rispetto alla tipica produzione musicale contemporanea, sul loro esserne ai margini per non aver assunto linguaggi e tecniche specificamente di ricerca, ma questo dibattito non dovrebbe attardarsi alla particolarità tecnica dei due compositori dell’Europa orientale. Sieben Worte ed Adam’s Lament sono lavori di suprema comunicativa, e incarnano una proposta concreta rivolta alla musica, come concepita da Darmstadt in poi. Questa capacità di affrontare tematiche universali, simboliche, questo avvinghiarsi così radicale, nella loro arte, alla relazione con il soprannaturale, fanno di Pärt e della Gubajdulina la prova tangibile che, in assenza di riferimenti alla dimensione metafisica, la musica, arte profondamente trascendente, rischierebbe di non diventare che mera professionalità, ottusa ricerca estetica in un contesto di inevitabile vuoto creativo, neanche più autoreferenzialità ma annientamento della dialogica musicale. Ciò che affascina di questi due compositori, e che li differenzia dal panorama della musica colta, non è il loro uso delle consonanze e delle dissonanze, il ritorno alle strutture armoniche in antitesi a coloro che tralasciano ogni ipotesi di centralità tonale, la proposta di una ricerca timbrica in chiave simbolica contrapposta alla funzionalità comunicativa della forma: ciò che ci dicono Pärt e la Gubajdulina è che, indipendentemente dal linguaggio impiegato, la musica che non si relaziona con la dimensione spirituale, e quindi con le profondità dell’animo umano, potrebbe tramutarsi in un semplice brancolare nel nulla. Un nulla a cui Pärt e la Gubajdulina ci sottraggono, in nome dell’amore, della speranza, della valorizzazione del senso pieno dell’umano”.