Geoffrey Farmer, The Process, 2013. Veduta dell’installazione, Fondazione Morra Greco, 2013. Foto © Amedeo Benestante. | Geoffrey Farmer, The Process, 2013. Installation view, Fondazione Morra Greco, 2013. Photo © Amedeo Benestante.

Bettina Allamoda, Geoffrey Farmer

Un nuovo appuntamento con il progetto Hybrid Naples: l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose, ciclo di mostre in quattro fasi, a cura di Jörg Heiser.

Per il quarto appuntamento del ciclo Hybrid Naples: L’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose, promosso dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee in collaborazione con la Fondazione Morra Greco nell’ambito di Progetto XXI, saranno presentati due progetti personali di Bettina Allamoda (Berlino) e Geoffrey Farmer (Vancouver).

Bettina Allamoda

Il lavoro di Bettina Allamoda spinge gli approcci metodologici sviluppati negli anni Sessanta – anche dagli artisti dell’Arte Povera – fino a nuove frontiere. Queste nuove frontiere sono quelle di un paesaggio tecnologico e ideologico radicalmente cambiato, in un mondo pluripolare, post guerra fredda, connesso dalla comunicazione digitale, e disconnesso dal divario sempre più ampio fra ricchi e poveri. Quali strategie adottano i potenti per controllare l’ambiente? Che cosa fanno le persone prive di potere per sopravvivere? E a quali tattiche ricorre chi cerca ancora di godersi la vita in mezzo al caos generale? I film, gli edifici, i televisori, perfino gli oggetti come le transenne o la stoffa elasticizzata per gli indumenti sportivi cambiano in maniera sintomatica in base a questi sviluppi. Allamoda crea collage, sculture e installazioni che riuniscono questi sviluppi trasformandoli in costellazioni ibride, surreali. In un’opera di Giovanni Anselmo come Torsione (1968), l’energia fisica è letteralmente immagazzinata torcendo un pezzo di cuoio sopra un cubo di cemento con una barra di legno che viene poi tenuta contro la parete; in un’opera di Allamoda come Bed Bondage Sculpture #3 (2010), un pezzo di similpelle vellutata nera viene torto attorno a quello che sembra uno sgabello da bar (ma è un cavalletto da scultore per modellare), fissandolo contro la parete come un Batman che salta, “immagazzinando” così energia sia fisica che ideologica – tutte cose che Allamoda ha fatto in una mostra (presso la September gallery di Berlino) sul tema del complesso militare-industriale e sulle fantasie di invincibilità e dell’esserne ossessionati dopo la guerra in Iraq.

Per il suo progetto in più parti, concepito appositamente per gli spazi della Fondazione Morra Greco, Allamoda lavora con materiali e immagini reperiti in parte a Napoli: transenne o oggetti di plexiglass sono incastrati fra loro secondo equilibri e squilibri complessi grazie a stoffe e veli di plastica tesi o attorcigliati, formando sculture precarie, che ricordano i sogni degli studi televisivi anni Settanta ma anche incubi futuristi e distopici, un misto fra Gameshow e Robocop. L’esperienza fisica viene distorta dall’esperienza mediatica e viceversa: è questo che Allamoda trasferisce nel mondo della scultura e del collage, formalizzandola in un’esperienza astratta eppure fisicamente concreta, sensoriale e spaziale.

Geoffrey Farmer

Cosa ci emoziona? Nel lavoro di Geoffrey Farmer la domanda è centrale in molti modi: oggetti, letteralmente, cineticamente, costretti a muoversi; immagini che muovono qualcosa dentro di te, qualcosa che non sapevi neanche ci fosse: suoni che fanno vibrare delle corde nascoste e che ti coinvolgono. Questo rapporto flessibile fra oggetto, immagine e suono – che fluttua fra l’inusitato e il comico, il sentimentale e il bizzarro – viene esemplificato con vivacità dall’ultimo progetto di Farmer Let’s Make the Water Turn Black (2013), un’installazione che è come una coreografia in più parti, che coinvolge più di 70 elementi scultorei (inclusi la testa di un leone di pietra spaccata in due, illuminata dall’interno; un Cactus con gambe e fallo; oppure una siepe tagliata con una piuma in movimento) che sono pronti a muoversi, o ad essere illuminati, in corrispondenza ad un a colonna sonora di luce e suono complicata e controllata dall’uso del computer, chiamata a raccontare di nuovo la storia della vita di Frank Zappa.

Il lavoro di Farmer è un’aleatoria genealogia di controcultura americana, che isola piuttosto che illustrare i suoni e i sentimenti di questa tradizione attraverso la lente dello “Zappaesque”: che affonda le radici in grottesche sale da musica anni Trenta: folk e blues mordenti e rurali anni Quaranta; rap urbano anni Cinquanta; e musica psichedelica anni Sessanta.

Per Napoli, Farmer ha sviluppato ulteriormente un work in progress che è diventato un lavoro intitolato The Process (2013). Anche qui l’approccio è abbastanza simile, anche se trasferito al video. Un collage di fotografie – alcune delle quali trovate a Napoli, in libri e riviste a buon mercato – si sviluppa, accompagnato da una colonna sonora di rumori, applausi, zoccoli di cavalli, passi sulla ghiaia. In breve, quei rumori che puoi trovare in un archivio per il cinema o la radio. E mentre il film procede, sembra che le immagini siano cucite insieme non dalla narrativa, ma da quel tipo di rapporto algoritmico a cui il Web ci ha assuefatti: “tag”, cioè “gente che cammina”, o “armi”, o entrambi. Oppure animali, o “carini”, o “rovina”, o “montagne”. Tuttavia questi “tag” non sono espliciti, dobbiamo indovinarli, mentre i suoni li fanno diventare un – illusorio – insieme. Come i film collage brevi del regista canadese d’avanguardia Arthur Lipsett, l’opera ci presenta un panorama dei nostri sentimenti collettivi, i nostri desideri, le nostre paure, una vivace memoria fantasmatica. Alla Fondazione Morra Greco l’opera è accompagnata da altri elementi scultorei e da audio.

 

(Testo di Anna Cuomo)