Enza Monetti

Enza Monetti, “Swinging”, 2016. Donazione dell’artista. Collezione Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante.

Alleggerita dal filo pungente di un fare preciso e consapevole, ma in precario equilibrio fra transitorietà e inquietudine, la pratica artistica di Enza Monetti (Napoli, 1957) si potrebbe definire come  un’incalzante ricerca di una dimensione poetica autentica.

Artista autodidatta, dopo aver frequentato la Facoltà di Architettura, in mostre quali Le tavole Nere (1984), Ritmi alfa Ritmi (1987), Outrage Noir (1988), Mater Insula (2002), Rosso Carne (2004), Fake (2010), Swinging (2016), Monetti definisce una trama di segmenti che si connettono in una rete estesa, in cui l’essere umano è proposto nel suo inesauribile ricrearsi. Quest’indagine aperta e fluida si sviluppa attorno alla materia intesa come catalizzatore di possibilità espressive intimamente legate all’ambiente e riplasmate dall’immaginazione.

Dalle prime opere degli anni Ottanta, in cui si coniugano riflessioni sul primitivismo e sulle geometrie analitiche, l’artista procede all’azzeramento cromatico, all’assunzione di materiali plastici come metalli, plexiglass, legno, carta, pvc, fino alla realizzazione di ambienti alchemici, costruiti con modalità site-specific e di spazi energetici somiglianti a diari, dove le parole sono sostituite dalle immagini, facendo convergere dialetticamente arte e vita.

La ricerca dell’armonia fra sensibilità umana e tecnologia definisce i confini di una natura artificiale, propria di opere come le foreste sintetiche realizzate a controllo numerico: “i numeri, come il cielo, non hanno mai fine”, dichiara l’artista. Sovvertendo il classico schema chioma-radici, da tale assunto nasce un albero con base curvilinea e rami protesi alla sfera celeste, evocazione di un’ipotetica culla in ipnotico e perpetuo movimento oscillatorio, metafora di una pace intrinseca e riflessione di una possibile continuità, all’infinito, fra ogni elemento del reale.

Appartiene a questa serie l’opera Swinging (2016), entrata a far parte della collezione del Madre nell’ambito del progetto Per_formare una collezione. Per un archivio dell’arte in Campania, un albero tecnologico alto 3 metri e 30 centimetri, frazionato e ricomposto sul muro dello spazio espositivo. Rappresentazione archetipica su cui la luce riflessa cambia la sostanza stessa delle cose che vi si riflettono, questa forma-albero opera come medium fra presenza e assenza, consistenza e svuotamento, forza e fragilità, o vulnerabilità, tra fratture e ricostruzioni, suggerendo il recupero di una più ampia consapevolezza. Soprattutto nell’ottica premonitrice di una storia futura che sarà sempre più artificiale, ipotesi verso cui l’opera si fa contrappeso anche ermeneutico e etico, quale forma di salvaguardia della mobile dimensione interiore a prescindere da ogni trasformazione.

Le lastre sagomate di alluminio specchiato, negando consistenza di massa o di peso, edificano una realtà leggera, un’insolita tridimensionalità che si dà attraverso lo sbalzo e gli intervalli che modulano i vari piani. Il concavo e il convesso, lo spigoloso e il sinuoso, l’onirico e l’euclideo, l’aperto e il chiuso della forma sono, in questo senso, parte di un programma intellettuale che sollecita lo sguardo verso una creatività abile a cogliere l’organicità del reale e la profondità di cui è composta la vita.

Loredana Troise

Swinging, 2016

Attualmente non esposta

Donazione dell'artista. Collezione Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante.