Matheus Rocha Pitta, The Agreement, 2011-2013. Foto © Amedeo Benestante | Matheus Rocha Pitta, The Agreement, 2011-2013. Photo © Amedeo Benestante

Matheus Rocha Pitta, Klaus Weber

Un nuovo appuntamento con il progetto Hybrid Naples: l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose, ciclo di mostre in quattro fasi, a cura di Jörg Heiser.

Per il terzo appuntamento della ciclo Hybrid Naples: L’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose, promosso dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee in collaborazione con la Fondazione Morra Greco nell’ambito di Progetto XXI, saranno presentati due progetti personali di Matheus Rocha Pitta (Rio de Janeiro) e Klaus Weber (Berlino).

Matheus Rocha Pitta

L’opera di Matheus Rocha Pitta si occupa del rapporto fra macerie e rifiuti e la circolazione di immagini e oggetti. In una grande mostra tenutasi nel 2012 al Paço Imperial di Rio de Janeiro, l’artista raccoglie alcune macerie recuperate dalla demolizione di un edificio modernista e le racchiude in sacchi trasparenti che colloca dietro a finte pareti costruite per l’occasione. Alcune di queste pareti presentano una stretta apertura che permette di intravvedere all’interno: quei sacchi sono una allusione alle merci di contrabbando. Analogamente, in opere precedenti come il lavoro fotografico Drive Thru #1 (2007), realizzato durante una residenza a Austin in Texas, l’artista “confisca” della terra, la raccoglie in sacchi di cellofan che fanno pensare a sacchetti di droga e li dispone davanti a una recinzione sotto i fari puntati di un’auto, ricreando in questo modo un’immagine che ricorda le fotografie create ad hoc per testimoniare i successi nella lotta contro il narcotraffico.

Per il progetto di Napoli, intitolato The Agreement (L’accordo), Rocha Pitta utilizza un nuovo mezzo che consiste nel rivestire di cemento materiali di recupero, una mescolanza fra tecnica del calco e del collage, che ha origine da un sistema piuttosto frequente ed economico di rivestire le tombe: per chi non può permettersi il marmo o il travertino, si utilizza la lastra di cemento. In genere, per evitare che la gettata di cemento aderisca all’armatura di legno, la si ricopre di giornali: nel momento in cui il cemento si indurisce, la carta di giornale che aderisce alla parte inferiore della lastra ne diventa parte integrante. L’ironia sottintesa dall’artista è che in questo modo anche i morti avranno qualcosa da leggere, e che l’opera d’arte “morta” può nascondere concetti importanti in attesa di essere svelati. Un altro aspetto importante della scelta di questa tecnica consiste nel fatto che proprio nella regione di Napoli prima i Greci e poi i Romani incominciarono a utilizzare la pozzolana. Inoltre, a Napoli Rocha Pitta si imbatte per la prima volta in alcune steli funerarie dell’antica Grecia che ritraggono il defunto nell’atto di stringere la mano a una divinità, un gesto che doveva garantire a quella persona che anche dopo la morte avrebbe continuato a godere della protezione divina. Rocha Pitta riflette sulle migliaia di immagini trasmesse dai media contemporanei di persone che si stringono la mano, che si abbracciano e si baciano e così facendo segnalano e mettono in scena una forma di intesa, e ricopre le lastre di cemento con alcune di queste immagini suddivise in serie di dittici. La sala sotterranea della fondazione si trasforma così in una sorta di cripta, una celebrazione della natura paradossale dell’accordo inteso come affermazione di cambiamento.

Klaus Weber

Il lavoro di Klaus Weber ruota intorno all’idea di opera d’arte intesa non come contenitore ma come strumento di disseminazione che diffonde vibrazioni e risonanze come l’acqua sgorgante di una fontana. In alcune opere l’analogia con la fontana è letterale: Public Fountain LSD Hall (2003) consiste in una fontana di cristallo in stile vittoriano da cui fuoriesce un liquido di LSD preparato secondo il processo di potenziamento omeopatico che ne ha rimosso ogni traccia chimica. Poiché, tuttavia, secondo gli studi omeopatici l’acqua è dotata di “memoria”, l’LSD, pur essendo assente, rilascerebbe una “impressione” sulla struttura molecolare dell’acqua, che avrebbe quindi effetti allucinatori. Large Dark Wind Chime (Arab Tritone) (2009) è un altro esempio di opera che emette cupe vibrazioni tonali. Le lunghe campane cilindriche in alluminio che la compongono producono suoni misteriosi e inquietanti basati sul tritono, un intervallo continuo formato da tre toni interi. Conosciuto nella tradizione musicale occidentale come diabolus in musica, il tritono fu bandito dalla composizione fino in epoca romantica. Nel Wind Chime di Weber, basato sul tritono e sulla scala araba microtonale, questo intervallo si carica di ulteriore inquietudine legata alle paure insite nella tradizione dell’orientalismo occidentale e nell’islamofobia contemporanea.

Come nell’opera di Matheus Rocha Pitta, anche il progetto di Weber per la mostra di Napoli intitolato Phantom Box prevede l’impiego della tecnica del calco, in questo caso in gesso. Nell’opera di Weber, però, gran parte delle sculture sono calchi di modelli viventi, per esempio di persone incontrate a Napoli, la cui identità resta tuttavia nell’anonimato. La figura centrale dell’installazione presentata al primo piano della fondazione è una figura dormiente ritratta nell’atto di schiacciare un pisolino su una panchina, con il viso nascosto sotto un giornale. Lo spettatore osserva la scena che circonda questa figura centrale, e immagina che essa sia un prodotto della sua immaginazione, dei suoi sogni: un gatto che cammina, la porta di un garage, la figura di un ubriaco appoggiato a un muro, una coppia sdraiata su un asciugamano da spiaggia. Quello che vede, però, non è il volume “reale” delle figure ma il negativo del calco, che all’esterno si presenta come una superficie grezza di gesso e all’interno invece come il suo rovescio assumendo, grazie a una ben nota illusione ottica, i tratti reali della figura, con un effetto amplificato dalla presenza di qualche capello o di tracce di rossetto. Al piano terra della fondazione Weber colloca infine un’unica opera con la funzione di introdurre l’idea da cui nasce Phantom Box: una scatola dotata di specchio e di diversi fori, che ricorda quella utilizzata nella terapia per lenire il dolore dell’arto fantasma nelle persone che hanno perso una gamba o un braccio. Grazie al riflesso nello specchio dell’arto sano, il cervello riceve un feedback visivo che contribuisce ad attenuare il dolore post-traumatico. Nella versione di Weber la scatola è dotata non di due ma di più fori, sia a suggerire lo sforzo collettivo di sentire i fantasmi, sia come riflesso dei fantasmi messi in scena dall’artista nella sua installazione al primo piano.

(Testo di Anna Cuomo)