MARZIA MIGLIORA

Alessandria, Italia (1972), vive e lavora a Torino, Italia

Paradossi dell’abbondanza #44  2021

disegni, collage, tecnica mista, carta

Commissionato per Rethiking Nature

Courtesy dell’artista e Galleria Lia Rumma, Milano e Napoli

 

 

Paradossi dell’abbondanza #39  2021

disegni, collage, tecnica mista, carta

Collezione privata

 

 

Paradossi dell’abbondanza #38  2020

disegni, collage, tecnica mista, carta

Collezione privata

La ricerca di Marzia Migliora indaga le relazioni tra capitalismo e agricoltura, analizzando come le pratiche estrattive degli ultimi cento anni abbiano trasformato l’agricoltura familiare e il lavoro agricolo in Italia. L’opera di Migliora offre, attraverso una varietà di tecniche artistiche, una riflessione critica che trae elementi da numerose fonti, quali la scrittura accademica, la cultura popolare, la ricerca sul campo e l’esperienza personale dell’artista, cresciuta in una famiglia di agricoltori nel nord Italia. Paradossi dell’Abbondanza è una serie iniziata da Migliora nel 2015 come progetto a lungo termine che esplora le trasformazioni dei sistemi di produzione e consumo del cibo. Ispirati a An Edible History of Humanity, libro del giornalista britannico Tom Standage che traccia la storia dell’agricoltura dalla rivoluzione neolitica ad oggi, i collage indagano come i sistemi di lavoro e produzione dei prodotti agricoli si siano trasformati nel tempo, progressivamente aderendo a sistemi razziali e di sfruttamento a loro volta oggetto di un whitewashing capitalista  promosso attraverso strategie di marketing visivo e cultura pop. Le opere presentate in Rethinking Nature si concentrano su tre principali prodotti importati in Italia: caffè, zucchero e cacao. Migliora crea paesaggi visivi che svelano la traiettoria di questi prodotti dalla piantagione coloniale al consumo domestico, giustapponendo immagini di lavoratori nei campi a ritratti di donne bianche che gustano del caffè in quanto status symbol borghese. Per i collage, l’artista attinge a una varietà di fonti, tra cui i manuali di agricoltura di suo nonno, le cartoline Tall-Tale delle aree rurali degli Stati Uniti e la pubblicità degli anni Sessanta. Questi elementi vengono affiancati per svelare la narrazione fittizia sul cibo costruita nel XX secolo, che ha trasformato il raccolto in prodotto. L’artista fonde elementi visivi provenienti da diverse cronologie per illustrare come, attraverso fasi che includono la rivoluzione industriale, il boom economico e la green revolution, l’agricoltura capitalista abbia progressivamente eliminato le forme tradizionali di cura e attenzione per la terra, convinvendo ingannevolmente gli agricoltori a impiegare pesticidi, semi brevettati e forme intensive di agricoltura che hanno impoverito terre coltivate per generazioni – una perdita di conoscenza e sostentamento di cui anche la famiglia dell’artista ha fatto diretta esperienza.

 

Dichiarazione dell’artista

Ho passato la mia infanzia in una casa circondata da campi coltivati e popolata da molti animali. La vita contadina, la cura della terra e la determinazione delle specie vegetali, credo abbiano formato il mio sguardo d’artista. La mia famiglia è solo un caso fra le innumerevoli vittime di un sistema di industrializzazione che ha scambiato il cibo per merce e l’idea di sviluppo per un progetto meramente economico. Oggi un contadino vende cento chili di mais all’incirca al prezzo di una pizza: credo che questa semplice comparazione mostri una distorsione di metodi, economie e valori di un mercato il cui modello economico non protegge l’agricoltura familiare, diventando ormai impraticabile perché ideato per le aziende agricole su larga scala. In qualità di artista, per me resta di primaria importanza mantenere al centro della mia ricerca la realtà di ciò che ci circonda; credo che il mio ruolo sia quello di dar voce a situazioni scomode. Le mie opere sovente nascono da un fastidio, da qualche cosa che ci accade, da un problema che non posso risolvere materialmente, ma su cui intendo attivare delle riflessioni attraverso il mio fare.