Darren Bader, immagine per invito, 2017. Courtesy l’artista; Andrew Kreps Gallery, New York; Galleria Franco Noero, Torino; Sadie Coles HQ, Londra. | Darren Bader, invitation project, 2017. Courtesy the artist; Andrew Kreps Gallery, New York; Galleria Franco Noero, Turin; Sadie Coles HQ, London.

Darren Bader

(@mined_oud)

14.10.2017 — 02.04.2018

Orari e biglietti

(@mined_oud) – gioco di parole che potrebbe o non potrebbe derivare dalla lettura in senso contrario dell’indirizzo email dell’artista e che propone un’assurda sinestesia fra il nome di un’essenza orientale, l’allusione all’esaurimento di un filone minerario e l’apparente generazione di un potenziale palindromo – è il titolo della prima mostra personale in un’istituzione pubblica italiana di Darren Bader (Bridgeport, CT, 1978), uno dei più sperimentali artisti internazionali delle ultime generazioni.

Al Madre l’artista trasforma il tradizionale dispositivo della mostra personale in uno strumento plurimo e molteplice di analisi dei modelli con cui le opere d’arte sono recepite e mediate nello spazio-tempo istituzionale. Le opere e gli interventi grafici di Bader sono inseriti nel percorso della collezione costituendo una vera e propria, anche se volutamente quasi non percepibile, “mostra nella mostra” formata da una serie di esche disseminate in un allestimento a “camouflage” che, nella sua articolazione complessiva, esprime un punto di vista ellittico, denso di cortocircuiti ironici e giochi linguistici sulle singole opere, sui temi affrontati, sulle logiche d’allestimento, comunicative e didattiche, sugli statuti stessi della collezione e dell’identità museale contemporanea. L’intervento sfumato, intricato dell’artista, è concepito come un gioco sottile per il visitatore, che include anche un invito ad esporre indirizzato a una serie di altri artisti, le cui opere saranno presentate, insieme a quelle di Bader e a quelle entrate in collezione. Sarà presentato anche un gruppo di altri lavori, spesso minimi, di natura trasformativa o performativa, o destinati al pubblico digitale.

Fin dal titolo, con l’apposizione del simbolo “@” e delle parentesi, l’artista stabilisce un primo piano puramente digitale di senso e di esperienza della mostra che, fisicamente, si disperde e si integra con il percorso di visita della collezione del museo, rifiutando quindi un baricentro rigido e privandosi di un’immediata riconoscibilità, per porsi invece in relazione con le identità, le pratiche, le opere degli artisti in collezione. Esplorando i meccanismi di funzionamento dell’immaginario contemporaneo, di cui fa affiorare le estetiche collidenti, ed intervenendo in aree del museo fra loro non direttamente collegate (Project room, piano terra; cortile; secondo piano) Bader rimette in discussione la concezione di cosa si considera “arte”, “opera”, “mostra”, “museo”, proponendo una serie di domande sui valori, sui criteri, sui meccanismi di pensiero e sulle logiche comunicative proprie del sistema dell’arte contemporanea.

Bader si definisce uno “scultore”: la sua pratica consiste nel mettere insieme elementi complementari quali oggetti di consumo, parole, immagini, animali, persone. Elementi disparati di realtà che generano relazioni al contempo concrete e immaginarie, reali e fictional.

Come scrive Luca Lo Pinto nel libro d’artista che accompagna questa mostra, Bader “pianifica degli speed dates che talvolta si trasformano in matrimoni. Fa sbocciare l’amore tra due innamorati che non sanno di esserlo. Non crea, edita. Non produce, seleziona. Non rappresenta, mostra“. Bader priva di senso e al contempo aggiunge nuovi livelli di comprensione ed introspezione ad opere, oggetti e descrizioni possibili, o spesso impossibili, e riesce a rendere singolare una pratica il cui significato va ricercato nella calibrata inclusione di tutti i componenti del sistema dell’arte: opera, artista, gallerista, collezionista, visitatore di mostre, lettore di cataloghi. In questo senso la pratica di Bader può essere analizzata in termini “informatici” (come scrive, nel nuovo libro d’artista, Andrea Norman Wilson): essa scinde e riaccoppia il sistema interno dell’opera (la sua componente estetica) e la struttura esterna, o “back end”, che la gestisce e condiziona (il sistema dell’arte stesso). Se in un passato non troppo lontano il “back end” del lavoro di un artista era costituito, per esempio, dalla capacità dell’artista stesso di pestare il giusto pigmento di polvere per creare il colore più adatto alla restituzione del reale in un dipinto, negli ultimi quarant’anni quel “back end” si è trasformato nella capacità del sistema dell’arte di far divenire qualsiasi cosa un’opera d’arte. Attraversando un discorso iniziato dai seminali ready-made di Marcel Duchamp e poi, fra gli anni Sessanta e Settanta, dalle critiche al sistema dell’arte proprie dell’institutional critique, Bader dichiara che gli aspetti della produzione artistica alla base di quegli assunti sono ormai così palesi, indagati ed artisticamente espressi, anche in termini di decostruzione o denuncia frontale, che il passo successivo è non più la critica o la messa in scacco del sistema dell’arte, ma la sua positiva accettazione, consapevole incorporazione, narrazione condivisa. Bader dimostra così che la compartecipazione di tutta la serie degli attori che compongono questo sistema non può che generare, insieme a un’ulteriore inclusione di fattori e spunti mutuati da media onnipresenti, un valore accrescitivo dell’arte, al tempo della sharing economy.

La pratica di Bader è basata sull’inclusione e la condivisione dell’opera, che diviene spesso una creazione multi-autoriale o una forma di “intelligenza collettiva”. Per questo, accanto alla presentazione di proprie opere, l’intervento di Bader al Madre include interventi linguistici su alcune didascalie a muro di opere in collezione, i cui contenuti sono reinventati dall’artista, e l’invito a far parte del suo progetto espositivo rivolto a una serie di altri artisti, le cui opere saranno presentate nel percorso della collezione costituendovi una vera e propria “collezione nella collezione”: Lucas Ajemian, Kai Althoff, Francesco Arena, John Armleder, Darren Bader, Eli Begen, Nina Beier, Monica Bonvicini, Gregorio Botta, Paolo Bresciani, Sol Calero, Antoine Catala, Maurizio Cattelan, Matthew Cerletty, Maria Adele Del Vecchio, Eugenio della Croce, Amelia Diacono, J.W. Dibbi, Alberto Di Fabio, Gerardo Di Fiore, Roe Ethridge, Pierpaolo Falone, Sergio Fermariello, Ilaria Fincantieri, Urs Fischer, Anselm Fuchs, Ganzbrot Kollektiv, Jef Geys, Eugenio Giliberti, Judith Goudsmit, Leila Heidari, Corin Hewitt, KAYA (Kerstin Brätsch-Debo Eilers-Kaya Serene), Barbara Kasten, Marc Kokopeli, Runo Lagomarsino, Greta Lauber, Mark Leckey, Sherrie Levine, Pietro Lista, Emilio Mazzerano, John McCracken, Alessandro Mendini, Aurelie Messerin, Jonathan Monk, Alvise Monserrato, Anca Munteanu Rimnic, Marcella Musacchi, Katharina Sieverding, Michael E Smith, Heji Shin, Martine Syms, Rosemarie Trockel, Elio Washimps, John Wesley, Christopher Williams, Micheal Zahn.

La ricerca di Bader comprende anche opere immateriali, caratterizzate dalla produzione di certificati che descrivono le caratteristiche del lavoro che il fruitore è libero di realizzare seguendo le istruzioni fornite dall’artista. Queste opere, che incarnano il suo metodo di lavoro costantemente aperto e dialogante, saranno “esposte” in una duplice modalità al Madre, che connette in tempo reale sia il pubblico fisco che quello e digitale del museo:

  • Alcune opere immateriali saranno realizzate dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli sia in occasione dell’inaugurazione che durante i mesi di apertura della mostra. Elemento caratterizzante di questa esposizione è la collaborazione, e gli studenti sono invitati dall’artista ad essere di fatto co-autori della mostra, realizzando opere la cui documentazione entrerà a far parte della collezione del museo Madre, attivando una connessione sinergica e sfumando la distinzione fra istituzioni quali, appunto, il museo da un lato e gli istituti di ricerca e formazione dall’altro.
  • Un’ulteriore selezione di opere immateriali sarà proposta ai follower del Madre sui social network del museo (Facebook, Twitter, Instagram), attraverso una campagna di comunicazione dedicata che coinvolgerà il pubblico digitale, invitandolo a realizzare il proprio “Darren Bader”, e a condividere le fasi di creazione della propria opera d’arte.

Una serie, infine, di azioni performative completano l’articolata messa scena dell’identità del museo e della sua collezione prevista dalla mostra:

  • Il cortile interno del Madre si tramuta in una scacchiera di dimensioni ambientali a disposizione del pubblico per tutta la durata della mostra: il museo diventa così uno spazio pubblico di intrattenimento e un luogo di incontro in cui non solo la varietà delle modalità del gioco più iconograficamente e concettualmente associato all’avanguardia artistica varia a seconda della volontà dello spettatore, ma permette a ciascuno di entrare fisicamente all’interno del lavoro, sottolineando, ancora una volta, quanto il limite tra opere, fruitori e spazi espositivi sia labile e possa essere fondante nella pratica di un artista come Bader. Se le classiche pedine verranno sostituite da altrettanti paia di scarpe (disponibili per il ritiro all’ingresso del museo), oppure da oggetti personali da poter sacrificare o guadagnare, gli spettatori stessi potranno associarsi e divenire alfieri, regine e cavalli per dare vita a un momento di compartecipazione fisica, mentale, affettiva di un’opera che può divenire tale solo se attivata dal pubblico e dalla sua volontà di rinunciare al singolo per farsi “squadra vincente”.
  • Diversi interventi performativi hanno invece avuto luogo durante la serata dell’inaugurazione, inclusa una performance Sound Study, 2017, condotta dagli studenti della classe di Musica d’Insieme del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Il quartetto di fiati composto da Antonio Troncone, Jacopo Verde, Vincenzo Vuolo e Maurizio Conte ha tentato di far scoppiare una serie di chicchi di mais con le onde sonore prodotte dagli strumenti, mentre Felice Cutolo si è cimentato nella stessa impresa con la sua zampogna. La performance si è svolta alle ore 19.15; 19.45; 20.15; 20.45; 21.15; 21.45. Inoltre, una singolare degustazione di ostriche e burro di arachidi ha generato una riflessione su coppia, doppio e interscambiabilità di ruoli, funzioni e significati che caratterizza l’evoluzione del concetto d’arte contemporanea nella nostra era della condivisione a tutti i costi.

Infine, lunedì 16 ottobre alle ore 17.30, il pubblico del museo ha potuto assistere in via eccezionale al processo produttivo dell’opera Scultura #3.85 di Darren Bader. Scultura #3.85 è un lavoro prodotto dall’artista in occasione della mostra al Madre, l’ultima di una serie di sculture che utilizzano opere o manufatti d’arte esistenti o forgiati come recipienti per reliquie e spazzatura. Quattro dei sei elementi della Scultura #3.85, forniti dalla Fonderia Nolana Del Giudice, sono stati riempiti di rifiuti di giornata del museo. Una volta pieni, sono stati saldati dalla Fonderia Nolana Del Giudice, che ha sostenuto la produzione del progetto, e rimarranno nel cortile per tutta la durata della mostra. Bader chiede gentilmente a tutti i visitatori del museo “di non portare pezzi di Scultura #3.85 a casa”.

La mostra è realizzata nell’ambito del progetto Itinerari del Contemporaneo-Confronti, integralmente con fondi POC (PIANO OPERATIVO COMPLEMENTARE) 2014-2020 Regione Campania, e attuata dalla SCABEC SpA, Società Campana Beni Culturali, che ne cura tutti gli aspetti organizzativi.

Darren Bader (Bridgeport, CT, 1978) vive e lavora a New York. Fra le mostre personali in spazi istituzionali: Meaning and Difference, The Power Station, Dallas (2017); Reading Writing Arithmetic, Radio Athènes-Institute for the advancement of contemporary visual culture, Atene (2015); Where Is a Bicycle’s Vagina (and Other Inquiries) or Around the Samovar, 1857, Oslo (2012); Images, MoMA-PS1, New York (2012). Insignito nel 2013 del Calder Prize, Bader ha preso parte a numerose mostre collettive e biennali, fra le quali: 13éme Biennale de Lyon. La vie moderne, Lione (2015); Under the Clouds: From Paranoia to the Digital Sublime, Serralves Museum of Contemporary Art, Porto (2015); The Whitney Biennial, The Whitney Museum of Contemporary Art, New York (2014); Antigrazioso, Palais de Tokyo, Parigi (2013); Something About a Tree, FLAG Foundation, New York (2013); Empire State, Palazzo delle Esposizioni, Roma (2013); Oh, you mean cellophane and all that crap, The Calder Foundation, New York (2012); Greater New York, MoMA-PS1, New York (2010); To Illustrate and Multiply: An Open Book, Museum of Contemporary Art, Los Angeles (2008).