Mark Manders

Mark Manders, Head with Wooden Hammer, 2011. Collezione privata. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Mark Manders, Head with Wooden Hammer, 2011. Private collection. On loan to Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Naples. Photo © Amedeo Benestante.

A partire dalla metà degli anni Ottanta, l’artista olandese Mark Manders (Volkel, 1968) ha sviluppato un linguaggio scultoreo e installativo estremamente personale. Al centro della sua pratica si situa un’idea di scultura come “frammento” residuale, come unità generata dal recupero e dall’aggregazione di forme e materiali che rivelano l’usura del tempo.

L’interesse che l’artista rivela, fin dagli anni della sua formazione, per il linguaggio della poesia trova eco nel modo in cui combina gli oggetti tra loro, a formare composizioni che, della poesia, conservano appunto il fascino e il mistero dei meccanismi associativi, oltre che un’attenzione verso la bellezza che riposa anche negli aspetti più poveri della realtà. Il linguaggio classico della scultura – inteso come integrità della figura, come modellato e come monumentalità – pur se ineludibile punto di partenza, viene come eroso, rivelando al contrario la natura fragile e precaria dell’esistenza umana, ritratta in tutta la sua caducità e in uno stato di perenne transizione.

Nel 1986 Manders realizza il primo lavoro della serie Self Portrait as a Building dal titolo Inhabited for a Survey, un’installazione concepita come “autoritratto” in forma di disegno minimale. L’artista realizza il profilo della pianta di un edificio immaginario, appoggiando sul pavimento matite, pastelli, gomme e altri strumenti per il disegno che fanno parte del lavoro quotidiano di un artista nel suo studio. Quest’opera – la prima di una lunga serie tuttora in corso e che l’artista concepisce come un progetto legato alla durata della sua stessa esistenza – chiarisce alcuni punti fondamentali di tutta pratica artistica di Manders: l’intersezione tra autobiografia e residui frammentari della memoria e della storia dell’arte, e l’estensione della soggettività e della dimensione interiore allo spazio espositivo.

Nelle sculture e nelle installazioni di Manders gli oggetti più banali – come utensili ed elementi di arredo logori – sono usati per comporre micro-cosmi all’interno dei quali la funzionalità e la razionalità impliciti nell’atto costruttivo lasciano spazio a scenari di intimità, fino al degrado e alla follia.

Head with Wooden Hammer fa parte di un corpus di lavori tra i più iconici realizzati dall’artista, ossia una serie di sculture in cui i corpi (o porzioni di essi) rimandano alla scultura classica ma sono al contempo pressati e costretti all’interno di elementi che richiamano la dimensione abitativa, come mobili o assi di legno. Queste enigmatiche figure sono il risultato di processi combinatori e di transizione tra il corpo e la sua rappresentazione, tra l’organico e l’inorganico, tra l’umano e la materia. La matrice cubista e dadaista implicita nell’atto dell’assemblaggio di materiali eterogenei è sottilmente trasformata, e perturbata: i materiali che l’artista utilizza, infatti, sono sottoposti a un trattamento che ne enfatizza tanto l’effetto illusivo quanto la natura temporale, soggetta alla consunzione e al collasso.

Materiali come il bronzo o, nel caso di quest’opera, la resina epossidica, sono trattati in modo tale da apparire come argilla fresca, come se la scultura avesse da poco lasciato lo studio dell’artista. In questo senso la dimensione originaria, primordiale, basica della scultura (l’argilla fresca) si sovrappone all’immagine del frammento come reperto archeologico, confondendo i piani del passato e del presente e mettendo a confronto tra loro l’aspirazione umana all’immortalità e l’accettazione di un destino mortale. Un esercizio di sospensione e riconciliazione, tutto interno ai linguaggi della pittura, della scultura e dell’architettura.

AR

Head with Wooden Hammer, 2011

Attualmente non esposta.