Marisa Albanese

Marisa Albanese, Via Settembrini, 2012-14 (veduta dell’allestimento). Courtesy l’artista e Studio Trisorio, Napoli. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante.

Tensione e attraversamento costituiscono i topoi che unificano tematicamente e strutturano concettualmente la ricerca e la strategia estetica di Marisa Albanese (Napoli 1947). Un attraversamento essenzialmente fisico è presente già nei primi lavori dell’artista, in cui la fruizione dell’opera è legata alla sua funzione dinamica, come nelle scritte palindrome che impongono necessariamente l’adozione di un punto di vista mobile. Nel Grande Gioco (1990) è invece la morfologia stessa della scultura a richiedere un movimento visivo, “performativo”, ovvero interno alla scultura stessa.

Nel corso degli anni il percorso di Marisa Albanese diventa gradualmente più metaforico, si configura come uno sforzo a protrarsi, a tendersi verso qualcosa di inafferrabile, per giungere ad indagare i flussi di energia interni ed esterni all’opera, come in Le resistenze (2002), scultura animata da fili ad alta tensione che diviene un prisma di energia pura, metafora dell’energia dell’artista, tesa a dare rappresentazione all’utopia stessa dell’arte di cambiare il mondo e alla sete di conoscenza che induce a spingersi oltre i limiti fenomenologici del reale.

Parallelamente l’interesse di Albanese si concentra sul recupero e la riformulazione delle radici proto-classiche della scultura, un’attitudine rintracciabile sin dalle Korai (2000), opere che già nel nome evocano un’idea di scultura ieratica, oltre che nella resa formale, bloccata in un volume geometrico e compatto, immobile e solenne. I riferimenti desunti dalla storia dell’arte sono poi sottilmente contraddetti dall’artista nella scelta inusuale delle posture, nella gestualità delle mani che schiude ad una vasta simbolica e in alcune caratteristiche delle figure ritratte, come i caschi-copricapo, che restituiscono queste figure al nostro tempo, conferendo loro un atteggiamento resistenziale di ascendenza femminista. Lo stesso modus operandi è ripreso e sviluppato in lavori come Le Combattenti (2000), installazione permanente realizzata per la stazione della metropolitana di Quattro Giornate a Napoli, e le Allieve (2003), sculture ingabbiate e sospese da terra, dove il casco lucente diviene l’unico attributo di donne diafane e sottili, emblema di una femminilità acerba e androgina.

Nella sua ricerca successiva, Albanese si è concentrata sulla condizione abitativa, lo spostamento, il nomadismo, e sui flussi di energia, intima quanto sociale, ad essi connessi. A questa fase appartengono i suoi lavori più recenti, come Vento del Sud (2012) o la serie dei Diariogrammi (2009-14), disegni dal tratto scosso, nervoso, nei quali lo spettatore ha la possibilità, di volta in volta, di trovare la propria chiave interpretativa: registrazioni dell’inconscio, mappature di un viaggio interiore innescato dalla fisicità del disegno, dalla sua energia intrinseca ed incontrollabile, dal dialogo interiore tra paesaggio/passaggio e artista, dalla valenza polisemica che, a volte, può assumere la familiarità del sogno (a occhi aperti).

Via Settembrini (2012-14) è ancora un lavoro sull’attraversamento che richiama direttamente la storia di Napoli e le sue molteplici stratificazioni urbanistiche e culturali, il suo essere, in definitiva, mutuando l’espressione da Georg Simmel, una città palinsesto. L’installazione, appositamente concepita per il Madre, è composta da un video e da due maquette che restituiscono la planimetria dell’area del quartiere di San Lorenzo nella quale il museo è ubicato ed opera: la tridimensionalità degli edifici, il gioco di pieni e vuoti determinato dalla prossimità fra edifici e strade, o vicoli, è resa dalla sovrapposizione di una mole di fogli di carta meticolosamente intagliata. In queste maquette la carta è dunque elevata a medium scultoreo, ricollegandosi alla ricerca che Albanese conduce dal Grande Gioco in avanti.

Nel video si assiste al progressivo spargimento, e alla finale ricomposizione, del museo stesso fra gli edifici circostanti, azione che restituisce l’immagine di un’istituzione metaforicamente disseminata nel suo territorio e che, disperdendosi, diviene creatrice di comunità, di identità condivisa, materializzazione mobile, ma sempre riconoscibile, di un punto di riferimento collettivo, di quella “necessità” rappresentata dal museo. Questo lavoro, nella sua composta qualità metaforica, pur collegandosi a tutta la produzione dell’artista, privilegia tuttavia la componente evocativa dell’oggetto e un’istanza di relazione che lo differenziano dalla composita artificiosità di altre opere precedenti, dalla loro natura affine a quella di una macchina celibe.

L’opera diviene in questo caso un sapiente esercizio comunicativo, una consapevole forma di riscatto che dà voce all’ineffabile, rende tangibile l’invisibile, prende posizione quale parte attiva in un processo di creazione di senso: non solo contribuisce alla costruzione di un immaginario simbolico, ma ha il potere di trasmettere alla società proprio l’energia di quell’immaginario, che consente di fare i conti con le proprie necessità, con le proprie aspirazioni e con le proprie iniquità, realizzando di fronte ai nostri occhi la possibilità di reinventarsi, di ripensare i propri valori e i propri obiettivi. A partire da un fragile museo di carta, che esercita nondimeno il potere attrattivo e pervasivo di un monumento plurale, stratificato nelle sue molteplici proposte e radicato sul suo animato territorio.

Eugenio Viola

Via Settembrini, 2012-14 (still da video)

Attualmente non esposta.

Courtesy l’artista e Studio Trisorio, Napoli. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante.